Le ultime giravolte di Verhofstadt: dal M5S a Macron, passando per Robespierre

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Per il pubblico italiano Guy Verhofstadt è l’europarlamentare che poche settimane fa ha definito Giuseppe Conte un “burattino” nelle mani di Matteo Salvini e Luigi Di Maio nel corso di un appassionato intervento a Strasburgo. Per chi segue più da vicino le vicende europee, è anche il volto del gruppo politico Alde, che racchiude i partiti di ispirazione liberale e moderati. E che, stando a quanto ha dichiarato nell’intervista rilasciata a La Stampa mercoledì scorso, lascerà il posto ad un soggetto più ampio e riformatore che punta ad avere un ruolo chiave nel processo di cambiamento dell’Unione europea: per Verhofstadt l’uomo giusto è il presidente francese Emmanuel Macron, leader di una nuova generazione di europeisti per “proporre un’alternativa ai nazionalisti, ma anche un’alternativa allo status quo” e per “trovare un nuovo posto nel mondo, per competere con Cina, Russia e India”. Gli Stati Uniti nel suo ragionamento non sono pervenuti, ma a dire il vero non è l’unico passaggio dell’intervista che lascia perplessi.

Di per sé potrebbe far alzare qualche sopracciglio la strategia di puntare su un capo di stato che non gode di particolare stima nemmeno nel suo paese, ma è quando affronta l’argomento Italia che Verhofstadt porta involontariamente a galla molte contraddizioni. Dice di sentirsi “italiano tanto quanto molti italiani” e a prova di questo sentimento ricorda come suo cognato sia partenopeo (non c’è nulla di più italiano, d’altronde, della famiglia), “il che vuol dire che non è italiano: è molto più che italiano. È del Regno di Napoli!”: quelli del Granducato di Toscana, del Regno di Savoia e della Repubblica veneta si mettano il cuore in pace e in fondo alla coda.

Politico scafato, già capo del governo belga, nel curriculum di Verhosfstadt mancano però ruoli di primissimo piano nell’apparato istituzionale europeo e così, due anni fa, nel tentativo di raccogliere i consensi necessari per ambire alla presidenza del Parlamento europeo, aveva avviato le trattative con il Movimento 5 stelle perché i grillini entrassero nel suo gruppo liberale. Non se ne fece niente dopo la sommossa della base pentastellata, nonostante “molti di loro, soprattutto nel gruppo qui a Bruxelles, sono europeisti”. Eppure, poche righe sopra confidava che all’epoca non ne rimase particolarmente convinto “perché c’erano dubbi sul loro europeismo”, tra cui l’ambiguità sulla permanenza nell’area euro. Chi ci capisce è bravo. Oggi qualcosa è cambiato? C’è margine perché il M5s faccia parte del nuovo soggetto politico? “No, no, assolutamente”, replica e il motivo principale è che “nel momento in cui hanno preso una direzione che va verso Salvini non c’è più alcuna possibilità”. Sull’alleanza di governo con la Lega casca dunque l’asino. A rigor di logica, sarebbe stato lecito, da un presunto esponente liberale, attendersi delle argomentazioni più approfondite, per esempio sulla netta distanza tra concetti chiave come la concorrenza e la libertà economica e l’ideologia grillina, improntata al dirigismo e all’interventismo statale. Oppure, sulla notevole differenza tra il garantismo liberale e il giustizialismo gridato dei cinquestelle, ma a tal proposito è utile ricordare che a febbraio Verhosftadt, acerrimo nemico di Brexit e strenuo difensore della cessione di ulteriori quote di sovranità riassumibile nello slogan “Più Europa!”, pronosticava ai sostenitori del Leave una fine drammatica: sotto la ghigliottina come i rivoluzionari francesi. Roba da far impallidire pure una pasionaria come Paola Taverna. Se la politica è anche l’arte di ribaltare le parole del giorno prima, e Verhofstadt ha dimostrato di saperci fare, chissà che nella sua confusione ben poco liberale non convinca alla fine pure Di Maio a sostenere Macron (e il suo franco coloniale): dal caos può saltar fuori di tutto.

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