La lenta agonia del Venezuela, mentre il mondo resta a guardare

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Da alcuni anni assistiamo a una delle peggiori crisi umanitarie dal dopoguerra, senza che però nulla sia cambiato. Mentre i media, che hanno seguito la vicenda solamente durante il periodo delle elezioni, parlano di calciomercato o delle uscite di Trump, il Venezuela resta nell’ombra, nascosta, rinvenuta solamente in sporadiche occasioni. Eppure, dal 20 maggio scorso, data delle elezioni-farsa che hanno consegnato nuovamente il Paese in mano al dittatore (perché di questo si tratta) Maduro, sono passati ben due mesi. Nulla è cambiato, anzi: la popolazione venezuelana è ormai allo stremo, consapevole che una soluzione politica alla crisi è oramai impossibile da raggiungere.

Il regime di Maduro ha superato l’ostacolo. Il dittatore ha battuto il suo principale avversario, Henri Falcón, con oltre il 67 per cento dei voti; per il leader di centrosinistra, solo il 21 per cento. Ciò che conta però è il numero dei votanti: su un elettorato di 20 milioni, solo 8 milioni e 600 mila cittadini sono andati a votare. Secondo le stime, l’astensionismo arriva al 52 per cento, il più alto livello da quando è stata introdotta la democrazia in Venezuela. Fonti indipendenti affermano tuttavia che la cifra sia ben più alta, tanto da arrivare all’80 per cento. Questi numeri non fanno altro che legittimare l’accusa di brogli elettorali da parte dell’opposizione ma, vista l’assenza di qualsivoglia osservatore internazionale, dalle Nazioni Unite all’OEA, è impossibile calcolare precisamente quanto consenso realmente abbia ottenuto Maduro.

L’accusa proviene anche da fuori, in particolare dagli Stati Uniti, con le dichiarazioni della portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert, che definiva “illegittime” le elezioni, e del vice presidente Mike Pence, che invece ha descritto come “falsa” e “non libera” la tornata elettorale. E dalle parole, Washington è passata ai fatti: all’indomani delle elezioni, il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che prevede il blocco di qualsiasi asset finanziario proveniente da Caracas, in particolare titoli di debito, tra cui quelli della compagnia petrolifera nazionale PDVSA, unica struttura nel Paese rimasta ancora a galla. Le sanzioni si aggiungono agli ordini esecutivi di agosto 2017 e di marzo 2018 contro gli investimenti nella criptovaluta Petro, inventata dal regime di Maduro per aggirare le sanzioni statunitensi. Sanzioni che per ora non toccano il greggio, nonostante gli Stati Uniti raccolgano circa un terzo di quanto prodotto da Caracas, e quindi in una posizione in grado di decidere le sorti del regime. Addirittura, durante i festeggiamenti per l’Independence Day del 4 luglio, l’Associated Press aveva reso note presunte pressioni da parte di Trump al suo gabinetto e nei confronti di alcuni leader sudamericani circa la necessità di un intervento armato in Venezuela, già prospettato dallo stesso Trump l’agosto scorso. E mentre gli USA (insieme ad altri 14 Paesi americani che non riconoscono il risultato elettorale) cominciano a isolare il regime, dalle altri parti del mondo non arrivano che blandi comunicati, o, persino, congratulazioni. Mosca e Pechino in particolare, con la prima che augura tramite il comunicato di Putin salute e successi a Maduro, mentre la seconda, per bocca del portavoce del ministero degli affari esteri cinese Lu Kang, si limita a rispettare il risultato elettorale e a ribadire la sovranità del Venezuela nella gestione di eventuali brogli. All’Europa invece appartengono i soliti comunicati di routine, con la sola eccezione dell’ex premier spagnolo Rajoy, che ha preferito usare Twitter.

E nel mentre tutti si sono ormai dimenticati di ciò che accade nell’emisfero sud-occidentale, in Venezuela la gente continua a morire. Il collasso dell’economia venezuelana, le cui cause ricadono tutte sulla cattiva gestione economica del governo, ha portato a un’iperinflazione che ha raggiunto quota 46 mila per cento. Dire che oggi il bolivar può essere usato come carta igienica è un complimento, vista l’assenza di quest’ultima dagli scaffali dei negozi e dei supermercati venezuelani. La totale scomparsa dell’industria e la pessima gestione del petrolio, le cui entrate valgono il 90 per cento del PIL nazionale, hanno dato il via a questa catastrofe, con una statistica che vede 8 famiglie su 10 al di sotto della soglia di povertà. La crisi ha inoltre colpito tragicamente anche la salute dei venezuelani; le medicine sono introvabili se non al mercato nero, vendute a prezzi salatissimi. Nonostante i vari appelli, tra cui quello dell’OMS, il regime non ha mai dichiarato lo stato di emergenza e rifiuta qualsiasi corridoio umanitario. In migliaia quindi stanno lasciando il Paese: secondo l’UNHCR, dal 2014 il numero di cittadini venezuelani in cerca di asilo nel mondo è aumentato del 2000 per cento, soprattutto nelle Americhe durante l’ultimo anno. Per la Croce Rossa invece, solo nel 2017 un milione di venezuelani hanno attraversato il confine con la Colombia, con una media di 37 mila persone al giorno. Un esodo come pochi.

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