La woke culture comincia a dividere anche i migliori alleati della sinistra liberal: i media

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Se proteggere la comunità afroamericana significa promuovere la neo-segregazione, allora Martin Luther King jr. ha certamente lottato invano

La woke culture non sta solo calpestando l’America per come la conosciamo, ma riesce addirittura a dividere i più grandi alleati della sinistra liberal: i media. Arriva dagli States un’interessante diatriba tra Bill Maher e Whoopi Goldberg, rispettivamente conduttori di Real Time with Bill Maher e The View. Maher, che si definisce un old liberal, trova inconcepibile che all’inizio delle partite di football l’NFL (National Football League) abbia imposto due inni nazionali, ovvero quello ufficiale affiancato al Black National Anthem. Quale miglior modo di dilaniare ancora il Paese, se non quello di avere un inno appositamente destinato agli afroamericani?

C’è di più: il conduttore di HBO si scaglia anche contro la deriva autorazzista di molti campus universitari, dove si è tornati a dormitori divisi per razza. Nel frattempo su Abc la star Whoopi Goldberg, dall’alto della sua superiorità intellettuale, non fa che approvare questo ulteriore schiaffo al buonsenso.

È la “neo-segregation” e proviene proprio da quell’enclave intellettuale che vorrebbe difendere le minoranze dal presunto razzismo sistematico che permea la nazione. Secondo uno studio della National Association of Scholars riportato dalla National Review, su 173 istituti pubblici e privati, il 43 per cento possiede dormitori separati, il 46 per cento offre programmi didattici separati e il 72 per cento organizza proclamazioni di laurea divise. Non sono dati relativi all’America degli anni ’50, bensì a quella del 2019.

Maher, che certamente non può essere collocato nel campo conservatore, rabbrividisce alla volontà di rieducazione auspicata dalla Goldberg. E noi con lui. Sovvertire l’America dall’interno, distruggendo ciò che le passate generazioni hanno costruito, è esattamente ciò che sta facendo la Critical Race Theory, promossa ampiamente da Black Lives Matter e da una parte consistente della sinistra americana.

Se proteggere la comunità afroamericana significa supportare la segregazione volontaria, allora Martin Luther King jr. ha certamente lottato invano. Le vecchie battaglie per i diritti civili sono lontane anni luce da chi proclama l’orgoglio identitario in virtù del rancore e della separazione consapevole, e per questo accettabile. È il frutto di un percorso neomarxista altamente pericoloso per la tenuta di una società composita come quella americana.

Laddove l’opposizione quasi totale del mondo Repubblicano era nota, desta piacevoli sorprese la presa di posizione di alcuni esponenti Democratici.

Fra i più noti anti-woke vi sono Tulsi Gabbard (ex deputata delle Hawaii) e James Carville (ex stratega politico di Bill Clinton). Degno d’attenzione è anche Eric Adams, candidato sindaco di New York, ex poliziotto e dunque contrario al “Defund the Police”, il mantra dei radicali del suo partito.

È di grande sollievo sapere che c’è ancora qualcuno capace di pensare da sé, anche laddove la correttezza politica raggiunge livelli di cortocircuiti intellettuali senza ritorno.

A quei pochi Democratici ancora collegati con la realtà si dovrebbe chiedere la responsabilità e l’audacia di porre un freno all’ondata di estrema sinistra che sta inghiottendo il loro partito, il Paese e l’ormai dominante mondo digitale. Purtroppo, con la sua presenza alla Casa Bianca Joe Biden non sta facendo molto per riequilibrare la nazione, nonostante i grandi richiami all’unità della sua inaugurazione. Del resto, come già molti segnalavano, anche la sua agenda è in gran parte ostaggio del radicalismo.

La parola va ora alle minoranze che, ricordiamolo, sono prima di tutto individui, non categorie. Sta a loro giudicare se le scelte dei loro beniamini siano davvero vettori di rivalsa sociale o si rivelino pericolosi segnali dal passato.

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