Le bugie di Pechino, un regime che si fonda sulla menzogna dalla sua nascita

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In questo periodo mass media e social network italiani sono invasi da un’incredibile quantità di fake news provenienti dalla Cina, e non è certo un caso. Dopo la firma, piuttosto frettolosa, del progetto cinese della “Via della seta” da parte del nostro governo, gli autocrati di Pechino hanno capito che la debole Italia è diventata il ventre molle dell’Occidente, e si regolano di conseguenza.

La firma suddetta fu apposta – tutti lo rammentano – in barba alle tante perplessità manifestate dagli Stati Uniti e dagli altri membri della Ue. Furono in molti, allora, ad avanzare il dubbio che, agendo in quel modo, alcuni ambienti politici nostrani stessero tentando di imporre, se non un vero e proprio rovesciamento, almeno una modificazione significativa della nostra collocazione internazionale.

E così è avvenuto. I cinesi stanno approfittando dell’attuale pandemia, partita proprio dal loro territorio, per spacciarsi come “salvatori” delle sorti italiche. Non si contano più i post che esaltano gli aiuti sanitari provenienti da Pechino e i messaggi che sottolineano l’amicizia italo-cinese.

Sui social fioccano i like di lettori talora ingenui e altre volte nemmeno tanto. Una simile propaganda rappresenta infatti una manna per coloro – e sono molti – che da sempre vagheggiano un cambiamento di sistema politico ed economico. Sono i numerosi reduci del ’68 che in seguito si sono per così dire “accomodati” nelle pieghe del sistema stesso, acquisendo posizioni di potere soprattutto nel circuito mediatico e informativo.

Basterebbe tuttavia una minima conoscenza della storia per capire che la Repubblica Popolare Cinese ha sempre praticato, sin dalle sue origini, l’arte della falsificazione. La serie delle menzogne di regime è lunga e riguarda in pratica tutti i miti fondativi della Cina comunista.

Agli studenti viene insegnato che fu l’esercito popolare di Mao Zedong a sconfiggere gli invasori giapponesi nel corso della Seconda Guerra Mondiale. In realtà il ruolo principale in quel conflitto fu svolto dai nazionalisti del tanto vituperato Chiang Kai-shek, poi rifugiatosi nel 1949 a Formosa (l’attuale Taiwan).

La Rivoluzione Culturale non fu affatto una festa, bensì un bagno di sangue in cui perirono milioni di persone. La collettivizzazione causò sacrifici enormi, lasciando il Paese diviso tra alcune metropoli scintillanti e una campagna che vive tuttora in condizioni di grande povertà.

E anche il mito dell’eguaglianza, tanto caro ai maoisti occidentali del secolo scorso è, per l’appunto, soltanto un mito. Dal 1949 il Paese è in mano ai cosiddetti “principi rossi”, vale a dire i discendenti di coloro che affiancarono Mao nella Lunga Marcia. A questo circolo ristretto appartiene pure l’attuale leader Xi Jinping, al pari di tutti i dirigenti che l’hanno preceduto.

Il Partito Comunista Cinese è notoriamente molto abile nelle operazioni di propaganda all’estero. Monolitico e sempre uguale a se stesso sin dal 1949, ha lanciato un’efficace campagna proponendo la Repubblica Popolare quale modello da imitare, basandosi sul fatto che monopartitismo, censura e controllo sociale pervasivo assicurano ordine e stabilità (“armonia”, per dirla in termini confuciani), elementi che il disordinato e instabile Occidente dovrebbe copiare.

Opporsi a questo genere di propaganda dovrebbe essere un dovere per chiunque aderisca invece a una visione liberal-democratica della politica e della società. È grave, per esempio, che la Cina si proponga ora come “salvatrice” dopo che la pandemia del nuovo coronavirus, nata e sviluppatasi entro i suoi confini, si è diffusa a livello globale. E, soprattutto, nonostante Pechino abbia ingannato il mondo intero riportando intenzionalmente numeri inferiori sia dei casi positivi che dei decessi, come ora anche agenzie di intelligence sostengono.

I medici cinesi che avevano cercato di mettere in guardia circa i pericoli del nuovo virus sono tutti scomparsi. Alcuni uccisi dal morbo, altri imprigionati perché avevano osato dire la verità. Il fatto è che la verità, in Cina, è competenza esclusiva del partito unico.

Negli ospedali i primari sono sottoposti all’autorità dei “commissari politici”, e sono quest’ultimi a decidere cosa si può o non si può dire. Stesso discorso nelle università. L’ultima parola sulla politica accademica non spetta ai rettori, bensì ai commissari che il partito piazza al loro fianco per controllarne l’operato. Davvero vogliamo che l’Italia adotti un modello simile a quello cinese, distaccandosi così dalle altre nazioni occidentali? Si può capire che il suddetto modello abbia successo in Africa (ma pure in quel contesto stanno sorgendo dubbi consistenti). Da noi sarebbe auspicabile una maggiore attenzione da parte del mondo politico, per non rischiare di trovarci in breve tempo più ordinati, ma molto meno liberi.

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