Per capire l’ennesimo golpe in Birmania le parole chiave sono “socialismo” e Cina

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Abbiamo assistito in questi giorni all’ennesimo golpe militare in Myanmar, nazione prima conosciuta come “Birmania” (o Burma, quando faceva parte dell’Impero britannico). Nelle ultime elezioni politiche la “Lega Nazionale per la democrazia”, il partito capeggiato da Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha ottenuto una vittoria schiacciante conquistando la maggioranza assoluta dei suffragi.

L’esercito birmano, la cui denominazione ufficiale è Tatmadaw, ha dominato per decenni la scena locale tanto sul piano politico quanto su quello economico, e sembrava aver accettato il responso elettorale dopo aver tenuto in reclusione Suu Kyi per un periodo lunghissimo. Evidentemente i generali sono stati invece colti dal timore di dover condividere il potere e hanno preferito assumerlo di nuovo in prima persona.

Tuttavia è difficile comprendere quanto avviene nella nazione asiatica se si prescinde dal termine “socialismo”. I militari locali, infatti, hanno adottato sin dal lontano 1962 una sorta di socialismo nazionale e autarchico non dissimile da quello in vigore in altri Paesi dell’area, anche se sono sempre stati attenti a non identificarsi in toto prima con l’ex blocco socialista sovietico e poi con quello cinese.

Vi sono comunque stringenti analogie con la Repubblica Popolare Cinese. In quest’ultima, dopo la scomparsa di Mao Zedong, è entrato in vigore uno strano mix di marxismo e confucianesimo, utilizzato a piene mani poiché consente alla dirigenza comunista di recuperare la tradizione confuciana che Mao aveva messo al bando. Tale tradizione è utilissima a Xi Jinping e al suo gruppo dirigente poiché consente di aumentare ancor più il ferreo controllo sociale esercitato dal Partito-Stato. Confucio esalta infatti la dimensione collettiva riducendo l’individuo a mero ingranaggio dello Stato.

Nel Myanmar è invece il buddhismo a svolgere questa funzione. L’esercito da sempre accentua l’identità buddhista della Birmania, dove la stragrande maggioranza della popolazione pratica la dottrina theravada, che significa “Scuola degli anziani”. Dottrina prevalente anche in Thailandia (dove però di socialismo non si parla), Sri Lanka, Laos e Cambogia.

La caratterizzazione “socialista” delle giunte militari che dal Dopoguerra si succedono al potere nell’attuale Myanmar va presa moto sul serio. Sin dall’inizio, infatti, venne tracciata una “Via birmana al socialismo” che prevedeva uno specifico modello di sviluppo economico collettivista, ritenuto il più adatto alle condizioni del Paese.

I militari si assunsero il compito di realizzare completamente tale modello, basato su un’autarchia pressoché assoluta e sulla lotta ad ogni tipo di influenza straniera, e in particolare occidentale. Grazie a questa strategia la Birmania è rimasta una nazione poverissima, con un’economia quasi esclusivamente agricola e dove la proprietà privata è considerata anatema.

I militari si sono inoltre resi garanti dell’unità del Paese che, in realtà, include numerose minoranze etniche e linguistiche, spesso in lotta con il governo centrale per ottenere l’autonomia e, in alcuni casi, addirittura l’indipendenza. Conflitti sanguinosi hanno dunque caratterizzato la storia recente della nazione, e i militari hanno sempre represso con il pugno di ferro ogni istanza autonomistica.

Il caso che ha destato maggiore scalpore è quello dei Rohingya, popolazione di fede islamica cui è negata la cittadinanza e che viene spinta con la forza a trasferirsi nel confinante Bangladesh. Ne è seguita una tragedia umanitaria di grandi dimensioni, condannata dall’Onu e da altri organismi internazionali.

Ed è in tale contesto che va collocato lo strano destino di Aung San Suu Kyi, che ha ora 76 anni. Esaltata in Occidente come eroina della democrazia e campionessa della lotta alla dittatura militare, fino a ricevere per l’appunto il Nobel per la pace, è poi divenuta un esempio negativo quando si è capito che la sua concezione della democrazia non coincideva affatto con la nostra.

In realtà ha praticato una politica nazionalista e identitaria che, sotto molti aspetti, non si differenzia molto da quella dei militari, fautori di un Paese chiuso alle influenze esterne e favorevoli, come prima si diceva, all’autosufficienza. Suu Kyi ha quindi adottato una linea identitaria che considera il buddhismo quale legame unificante del Paese, in modo non dissimile da quanto avviene nella confinante Thailandia (ma con conseguenze meno drammatiche). Non si è quindi opposta alla persecuzione delle minoranze religiose.

Nonostante la secolare diffidenza per l’espansionismo cinese, i militari birmani, che si autodefiniscono per l’appunto “socialisti”, trovano in Pechino una sponda ideale per realizzare la loro politica. Del resto l’esercito del Myanmar ha alle spalle una storia di repressioni brutali che hanno causato migliaia di vittime coinvolgendo, in alcuni casi, pure corrispondenti di giornali esteri. Dalla nuova situazione trarrà vantaggi – come sempre – la Cina, che assegna al Myanmar un ruolo di grande importanza nel progetto della “Nuova Via della Seta”, perno della politica estera di Xi Jinping. Non si dimentichi, inoltre, che la Birmania confina con l’India, considerata da Pechino un pericoloso rivale strategico in Asia. Non a caso la Repubblica Popolare ha concesso al Myanmar grandi finanziamenti destinati a migliorare le sue infrastrutture, legando così al suo carro il confinante Paese “socialista”.

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