Populismo e “political economy”

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La political economy non è la traduzione in inglese di ciò che nelle università italiane viene chiamato ‘politica economica’, la disciplina che studia principalmente i grandi aggregati (Pil, bilancia dei pagamenti, tasso di risparmio e di investimento, e via discorrendo). E’ una disciplina, invece, che studia i fenomeni politici con la strumentazione consueta degli economisti. In Italia ha un numero limitato di cultori. Poco più di trenta anni fa venne ‘importata’ in saggi scritti a quattro mani da Pier Carlo Padoan (ministro dell’economia e delle finanze nell’ultima legislatura) e Paolo Guerrieri (senatore del Pd nell’ultima legislatura ed ora professore alla Sorbona ed al Collége d’Europe di Bruges). Padoan e Guerrieri si interessavano principalmente agli aspetti internazionali della political economy.

La saggistica italiana sul populismo ha riguardato principalmente i suoi profili sociologici, con riferimento naturalmente a tematiche come la disoccupazione, il divario di sviluppo e di opportunità. Una vera e propria analisi economica del fenomeno, con studi empirici sulla Germania e sulla Spagna è stata effettuata da Dusting Voss della London School of Economics and Political Science nel saggio “The Political Economy of European Populism: Labour Market Dualisation and Protest Voting in Germany and Spain”LEQS Paper No. 132. Chi vuole il testo integrale può scrivere, anche a mio nome, a d.j.voss@lse.ac.uk.

Il lavoro è utile perché spiega i punti di contatto tra populismo ‘di destra’ e populismo ‘di sinistra’ ed induce a pensare che alcune misure prese nell’ultima legislatura (come il Jobs Act) abbiamo acuito le varie forme di populismo.

Lo studio – afferma Voss – ha l’obiettivo di portare chiarezza nella ‘apparente confusione accademica’ sul populismo e sulle sue determinanti. Sulla base di dati elettorali e socio economici (di Germania e di Spagna), il populismo viene concettualizzato come un problema di alienazione politica derivante dalla incapacità dei partiti socialdemocratici di rappresentare adeguatamente i lavoratori in una fase di crescente dualismo in fase di crescente dualismo di mercato del lavoro, in cui aumenta il divario tra lavoratori protetti (un tempo chiamati gli insiders) e lavoratori non protetti (gli outsiders). Se il gruppo che si considera sotto rappresentato o mal rappresentato da poter pesare adeguatamente sotto il profilo elettorale, la ‘destra’ colma il vuoto riorientando i conflitti tra lavoratori protetti e non protetti su linee identitarie e culturali, Se invece i lavoratori ,che, a torto o ragione, si considerano marginalizzati sa di pesare elettoralmente e di attirare attenzione , la ‘sinistra’ diventa più aggressiva nel trattare temi economico sociali. Sotto il profilo matematico, ciò vuol dire che esiste una relazione iperbolica invertita tra segmentazione del mercato del lavoro e la ‘domanda di populismo’. I dati di Germania e Spagna confermano questa ipotesi. Indicano anche che i due populismi si rafforzano a vicenda.

Occorre chiedersi se in Italia la segmentazione del mercato non sia aumentata, almeno nel breve e medio termine, a ragione del Jobs Act che tratta ‘nuovi e ‘vecchi’ in modo diametralmente opposto. Marco Biagi, e Gino Giugni (non certo giuslavoristi liberal liberisti) si proponevano di ridurre la segmentazione, non aumentarla.

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