Quelle storie (meravigliose) di altri piccoli Marchionne

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Il manager è colui che per sua definizione gestisce le risorse degli altri. È colui che per conto del proprietario, il tanto vituperato “padrone” ancora per certa sinistra, può assumere, ma anche licenziare. E in aziende grandi o piccole che siano deve organizzare il suo lavoro ma soprattutto quello dei dipendenti, deve salvare i loro posti, difendere le loro giuste esigenze, il tutto compatibilmente con gli obiettivi e la sopravvivenza della ditta. Perché se non si salva quella, poi non si salva nessuno, neppure il manager e il proprietario.

Ci sono top manager leggendari transoceanici come Sergio Marchionne. Ma in questo Paese ci sono e ci sono stati anche tanti piccolissimi Marchionne, self made man inconsapevoli precursori del suo pensiero. Il pensiero di chi come l’ex ad di Fca ha scritto a tutti i dipendenti:

“Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano, le fanno accadere, non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno, si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciando la propria impronta…”.

Questa era la mentalità del mio povero papà, Anselmo, il prode, per me, Anselmo. Una piccolissima storia italiana, nella quale molti operai o manager che siano, credo si possano identificare. Il mio papà, che proprio in questi giorni del lontano 1995 entrava in coma profondo per una malattia credo simile a quella del dottor Marchionne (fumava il mio papà solo due o tre sigarette al giorno), è stato operaio e poi manager, ovviamente infinitesimale rispetto alla leggenda di un grande e alla tragedia alla quale stiamo assistendo, che ha ripercussione anche sul sistema Paese. Figlio di un tranviere socialista, sfollato di Anzio-Nettuno (il mio papà era di Nettuno, per carità…), appartenente a una famiglia povera e numerosa (erano sette figli) e per questo operaio bambino a 11 anni in officina meccanica, diplomato poi alla scuola militare a Napoli come allievo motorista scelto dell’aeronautica militare durante la guerra, insomma una specie di top gun (il diploma fu un po’ bombardato e mai ritrovato), sbarcò da sfollato un giorno per caso ad Orvieto. E lì si innamorò di una bella signora della medio-piccola borghesia di palazzinari di provincia. Gente di valore, a sua volta. Ma che certamente le bombe e la miseria non le aveva così viste da vicino, come lui.

Mio padre ha fatto sempre il mestiere di operaio prima di diventare manager, il caposquadra come si diceva una volta quando questi termini inglesi non erano così in voga, e sempre con lo spirito positivo del sopravissuto. Ma soprattutto del sognatore. Lui è stato uno delle migliaia a contribuire a costruire l’Autostrada del Sole. La strada dritta che fece entrare l’Italia in Occidente, e anzi all’Occidente dette un esempio. Ogni volta che la percorro penso a lui. Non era un dipendente della società Autostrade, ma di una rispettabile e non piccola ditta appaltatrice di un plurimiliardario (vecchie lire) che contribuì a fare poi anche A2 e A3 e quant’altro e lavorò soprattutto per manutenzione manto autostradale verso Sud, perché non fosse scollegato dal Nord. A casa, a Orvieto, lo chiamavamo “l’Ingegnere”, perché il plurimiliardario, che mandò il mio papà a dirigere tutti i suoi più importanti cantieri da Chiusi-Chianciano, Orvieto, fino a Caianello, Mignano Montelungo (Caserta) e, termine ultimo (Ascoli Satriano, Foggia) ingegnere era davvero. Ma il plurimiliardario, uomo, conosciuto da bambina, semplice e davvero molto schietto e simpatico, non viveva quasi senza il mio papà, un Ingegnere morale.

Un giorno al cantiere di Caianello il mio papà, che lavorava materialmente insieme con tutti i suoi dipendenti e di più, licenziò un tizio che non si presentava, e senza giustificazione alcuna, al lavoro da tempo. Spararono uccidendolo al cane di mio padre, il bellissimo Ringo, come risposta. L’Ingegnere, quello vero, si presentò al cantiere. E ordinò: riassumilo. Mio padre: allora licenzi anche me, e Lei piuttosto pensi a tornar qui la prossima volta a portare gli stipendi, come ha sempre puntualmente fatto, non difenda i nullafacenti. L’Ingegnere, il datore di lavoro, cazziato ben bene da un suo prescelto manager, se ne andò con la sua macchina di gran lusso, che Marchionne ancora non produceva, perché non c’era, con la coda un po’ tra le gambe.

Il giorno che mio padre abbandonò per ragioni anche familiari, causa grave malattia di mia madre, io ero la segretaria poco più che bambina di mio padre al telefono: “Scusi, caro Ingegnere, ora mio padre non può risponerLe”. Il mio caro papà (e con lui l’Ingegnere) fu colui che assicurò nel nostro piccolissimo le vacanze a me e alla mia famiglia, quelle very chic a Baia Domizia, anni Settanta, luogo davvero elegante (non radical), ancora oggi nel suo camping internazionale, a 5 stelle. E a Baia Domizia, l’Ingegnere e forse anche il mio papà, assicurarono le vacanze credo anche ai loro dipendenti. Mio padre veniva smagrito e disfatto dal lavoro nel fine settimana negli hotel dove andavamo in vacanza. Non posso ancora dimenticare un venerdì di Pasqua, quando senza cellulari e quant’altro mio padre non si trovava più. Mia mamma ed io pensavamo a quel punto fosse morto. Arrivò la mattina di Pasqua. Semplicemente perché sull’A1, Roma-Napoli, non ancora erano stati messi i dispositivi Sos. Mio padre, l’Ingegnere morale, restò bloccato per una stupidaggine meccanica tutta la notte di Pasqua, nella sua 500 Fiat, color acqua marina. La sua preferita.

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