Se il New York Times riabilita persino l’Urss in nome del politicamente corretto

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Valentina-Tereshkova

È curioso leggere come autorevoli testate giornalistiche, non di un paese qualunque, ci servano articoli come quello uscito sul New York Times lo scorso 16 luglio, in corrispondenza del cinquantenario dello sbarco americano sulla Luna. Titolo emblematico: “How the Soviets Won the Space Race for Equality” (“Come i sovietici vinsero la corsa allo spazio per uguaglianza”).

L’articolo ci riferisce di come in Unione Sovietica fossero, a dire dell’autrice, particolarmente attenti al valore della parità di genere e di razza nella corsa allo spazio, mediante ingenti sforzi da parte dei sovietici per accaparrarsi il primato di ogni “prima volta” di qualsiasi minoranza che conta: primo cane, prima donna, primo asiatico, primo nero eccetera. Sembrerebbe la massima celebrazione dell’egualitarismo, stella cometa delle sinistre dem euroatlantiche: lo stato che mette al primo posto l’emancipazione delle minoranze in quanto tali, vittime di discriminazioni strutturali, ineliminabili e incorreggibili senza l’intervento dello stato socialista.

Pensieri innanzitutto da bilanciare con la realtà, ma pericolosi, in quanto ci confermano brutte notizie sullo stato di salute delle élite culturali dell’occidente libero.

“Bilanciare con la realtà” significa valutare i costi (soprattutto non economici) necessari per ridefinire la realtà al fine di eliminare quelle discriminazioni, o presunte tali, cui mi riferisco con il termine “strutturali”, cioè teoricamente ineludibili, come se fossero connotate agli individui in quanto “nati sbagliati” oppure… in quanto appartenenti ad una classe inferiore, subalterna.

Un piccolo esempio cinematografico recentissimo per cogliere le profonde storture provocate dal livellamento forzato della società nell’ordinamento sovietico si può trovare nella miniserie tv Chernobyl, prodotta da HBO, (consigliatissima) al secondo episodio: Ulana Khomyuk, fisico nucleare, nell’atto di presentare un piano di evacuazione della popolazione abitante nelle zone attigue alla centrale in cui è avvenuto l’incidente, registra la risposta disinteressata del funzionario locale del Partito Comunista, il quale, ex operaio in una fabbrica di scarpe, asserisce di disporre già di rassicurazioni (false) circa l’entità dell’incidente e di preferire le proprie opinioni a quelle di uno scienziato specializzato. Chiude la scena un brindisi del burocrate “ai lavoratori di tutto il mondo”, profondamente ignaro delle possibili conseguenze catastrofiche di una leggerezza del genere.

Tutta la serie ruota intorno alla difficile accettazione del reale per una burocrazia abituata al controllo mediante falsificazione e insabbiamento: “Ogni menzogna che diciamo, contraiamo un debito con la verità. Presto o tardi quel debito va pagato”, ammoniva il protagonista Valerij Legasov.

Come si concilia il rifiuto della verità con l’emancipazione determinata per via autoritativa? Promuovere l’ultimo in quanto ultimo, in questo caso l’operaio della fabbrica di scarpe, per assegnarlo ad una ruolo per il quale non ha competenze, o la minoranza da mandare nello spazio costi quel che costi, mediante un’operazione scevra di qualsiasi valutazione di opportunità e valore, ha come presupposto la negazione di altre e più vere priorità in favore dell’ideologia, nonché dell’opportunità politica. Il problema della società socialista e di quella politicamente corretta sta nella valorizzazione della discriminazione, sottolineata, evidenziata e cristallizzata, senza alcuna proposta concreta per ridurla alla radice offrendo opportunità, cedendo al fascino di un’errata convinzione paternalistica per cui non tutti gli individui sarebbero realmente dotati di capacità idonee per affermarsi da soli in una società libera e democratica.

“Under socialism, a person of even the humblest origins could make it all the way up” (“sotto il socialismo, qualsiasi persona dalle più umili origini poteva farcela”), chiudeva l’articolo sul NYT. È veramente necessario che lo stato si dia come priorità il record di “più deboli mandati nello spazio”? Può un “debole”, una donna o qualunque “ultimo” farcela da solo, senza una determinazione di discrezionalità che discende dal potere?

La risposta storica dell’Occidente è forza di volontà, libertà e autonomia come via maestra per l’affermazione sociale, motori dello sviluppo di tutta la società.

Ciò che dovrebbe far riflettere non è tanto il solito peana del mito comunista, egualitarista e moralista preso per sé, ma la fonte. È evidente il declino culturale che proviene da oltreoceano, dalla proverbiale “terra di opportunità”: un mondo che minaccia se stesso più o meno consapevolmente, giorno dopo giorno, tramite apprezzamenti più o meno espliciti, da parte delle sue élite culturali che dovrebbero difenderlo, nei confronti di modelli pauperisti, comprovatamente nocivi per gli ultimi che tanto si prefiggono di voler difendere, senza apparente memoria storica dei loro fallimenti.

Sarà quell'”americano medio” che vota chi promette di fare di nuovo grande l’America, a salvarla da se stessa?

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