Tra anatemi e spersonalizzazione dell’avversario, creato un clima infame: le parole sono azioni

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Le parole sono azioni, insegna Wittgenstein. E sarebbe quasi da immaginarselo il volto corrucciato e ombrato da una lingua di tenebra del filosofo austriaco intento a dare una sia pur rapida scorsa alla comunicazione in tempo di pandemia, soprattutto ai flussi continui, ininterrotti, torrenziali di messaggi social di esperti, politici e virologi afflitti da innegabile narcisismo e da una tendenza ossessiva alla abbronzatura mondana.

È la guerra totale delle parole, messe in fila senza cura alcuna per quella che sarà la risultante finale: si dicono o scrivono bestialità, si esacerbano gli animi, si genera la premessa di una guerra civile pandemica in uno spirito assoluto e messianico intriso di dogmi, assoluti, di tertium non datur.

O stai da una parte o dall’altra, senza possibilità di posizioni intermedie, di mediazioni, di sfumature. Scompaiono i fatti, avanzano le opinioni icastiche.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi, persona pacata e grandemente riflessiva, ad esempio può dire, nel generalizzato tripudio, che chi non si vaccina muore. Così, semplice, lineare, brutale. E però, al tempo stesso, non vero.

L’esperienza e l’evidenza empirica ci mostrano che non tutti i contagiati e nemmeno tutti i malati muoiono. D’altronde le stime percentuali di letalità del Covid non sono equivalenti al cento per cento, cosa che da sola azzera la veridicità di quella asserzione che sembrava più che altro un duro, e gratuito, attacco al leader della Lega, ma che nella opinione pubblica è stata vista e vissuta come messaggio di chiamata alle armi.

Ma sono in pochi a sottolineare questo dato di fatto. Molti altri sono impegnati invece a cercare giustificazioni che sembrano andare a parare nei lemmi che formano una sorta di mobilitazione totale anti-pandemica, una nazionalizzazione delle masse, per dirla alla Mosse, che passa in maniera inevitabile per una comunicazione bianco/nero, senza punti intermedi.

“Siamo in guerra contro il virus”, dicono e ripetono, “non si può andare tanto per il sottile”. Vero leit-motiv del tempo pandemico, nuova religione civile che piega la razionalità e la ripone nel cantuccio.

Stiamo assistendo al degrado più organico e capillare della intrinseca politicità dell’azione umana, rifluita a spettacolo impaurito, a Grand Guignol capace solo di produrre terribili calembour semantici che sembrano attingere allo spazio della schmittiana inimicizia assoluta: da un lato, la logorrea no-vax che tenta paragoni con il nazismo, e tira fuori una carrellata di kapò, fotomontaggi con le squadre della morte hitleriane, assonanze deliranti, e dall’altro lato non meno deliranti spersonalizzazioni di chi non condivide il proprio pensiero, reificato, ridotto a elemento biologico ma privo di attorialità politica e civica.

Nel mezzo, in una sorta di deserto insonorizzato, i pochi rimasti a cercar di fare andare la ragione, di rilevare come debba combattersi il virus senza rinunciare alla libertà e soprattutto senza mai perdere di vista l’imperativo di ordine morale del riconoscimento del valore umano, senza trasformare l’umanità, che è sempre attributo individuale, in un derivato insensato della collettività.

La guerra dell’inimicizia assoluta non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze. La sola questione è dunque questa: esiste un nemico assoluto, e chi è in concreto?”, ha scritto Schmitt in “Teoria del partigiano”.

E la risposta a quella domanda sembra punteggiare, danzando in spirito nell’aria, il dibattito pubblico e politico: ormai fronti contrapposti non fanno altro che cercare una colpa, assoluta, lancinante, e affibbiarla a intere categorie, additate alla pubblica esecrazione, in un tornante storico che ricorda gli orwelliani due minuti di odio.

Io non so se il virologo social per eccellenza si renda conto della enorme, apocalittica gravità del definire degli essere umani “sorci”: c’è una lunga sequenza storicizzata, eternata nel sangue della storia, che ci pone in drammatico piano sequenza davanti gli occhi e nel profondo della memoria le pagine tetre dei regimi che per ragioni di propaganda e di individuazione di un nemico assoluto erano soliti spersonalizzare i loro avversari, facendo un ampio ricorso al regno animale e componendo un bestiario della anti-politicità.

Topi. Vermi. Ragni. Parassiti. Scarafaggi. Chiunque non abbia dormito sui banchi di storia capisce, dovrebbe capire, dove alla lunga si vada a finire quando si nega l’umanità dell’avversario.

E non mi si risponda che si tratta di provocazioni, di calembour, della ferocia necessaria, ma quasi bonaria, per convincere masse riottose, perché allora potremmo legittimare così facendo lo stesso concetto di “vite indegne di essere vissute” (Lebensunwertes Leben) visto che venne formulato da due rispettabilissimi scienziati, il giurista Karl Binding e lo psichiatra Karl Hoche, e per fini di “salute pubblica”, in accordo a quelle che erano le coordinate concettuali e culturali dei primi decenni del 1900, e che poi sarebbero state mutuate dal Reich hitleriano per le sue politiche eugenetiche.

Esagerazioni? Non direi. Come sosteneva Elias Canetti, ne “La provincia dell’uomo”, le parole nell’oscurità pesano il doppio. E noi da circa due anni siamo piombati in un lovecraftiano abisso cieco e muto dentro cui ogni aspetto accresce il suo potere emozionale, e in cui le parole si fanno coltello e arma per la guerra totale.

Stancati, infiacchiti, stremati, mentalmente ed economicamente, politicamente e culturalmente, dovremmo fare attenzione alle parole che utilizziamo perché l’estrema sensibilità, la distinzione polarizzata, un utilizzo spregiudicato della comunicazione istituzionale tra loro cospiranti producono un potenziale panorama d’inferno, mostruoso e carnicino.

Una parola non è mai neutra. È un segno capace di evocare una realtà precisa. Le parole non comunicano, ricordano, dice giustamente Nicolàs Gòmez Dàvila. Ed è vero: c’è un potere di irradiazione e di rifrazione caotica, come in un teatro dell’assurdo, un teatro di carne ed esoterismo, di spirito e deliquio, che ci porta ad associazioni mentali invocate e costruite da un certo utilizzo del linguaggio.

Dietro il virologo-influencer che in televisione o sui social si lascia andare ad anatemi che lui reputa spiritosi, avanzano le masse urlanti, entusiaste per il livore dimostrato, in una crescita esponenziale dell’odio dimostrato e della spersonalizzazione: non sono più solo metaforiche pacche digitali sulle spalle, ma un continuo spingere l’asticella dell’odio nutrito per l’avversario sempre più in alto, assuefarsi alla rabbia, all’aggressività, al ritenere che sia normale, socialmente sano, escludere, erigere steccati, barriere, muri, dirsi e dire che altri dovrebbero essere espunti dal consesso sociale, dalla cerchia delle nostre frequentazioni.

E diventa molto più semplice escludere qualcuno se lo spersonalizziamo, se semanticamente lo riduciamo a ‘cosa’, a ‘bestia’, se gli togliamo di dosso la veste civica e lo riduciamo a nuda vita biologica.

Negli anni ’50, il grande Ionesco, per provenienza geografica e sensibilità personale ben avvezzo a cosa significhi in concreto sperimentare sulla propria pelle il maglio cingolato della dittatura e della spersonalizzazione, mise nero su bianco ‘o parole! Quali crimini si commettono in vostro nome’.

Ed è un dato di fatto; chi verga le parole, cerca poi, quando messo davanti l’abominio prodotto dalla evidenza che qualcuno lo abbia preso sul serio, di svicolare dicendosi semplice vittima di un fraintendimento o, al limite, che una parola non ha mai fatto male a nessuno. Cosa che, sia concesso rivelarlo e rilevarlo, non è assolutamente vera.

Quando si pontifica di inevitabile nesso tra libertà e responsabilità si tende, per convenienza, ad obliare un elemento non revocabile in dubbio e cioè che la primaria responsabilità è quella di prendere sul serio qualunque elemento, a partire da ciò che diciamo, da ciò che comunichiamo.

Tanto più, e a maggior ragione, se la cosa riguarda chi si è erto a paladino della competenza e della serietà: se uno scienziato, un intellettuale o un politico vuol costruirsi una immacolata immagine di persona esperta nel proprio campo, combattendo e irridendo gli improvvisati, acquisendo quindi sul campo galloni e aura vaticinante dell’oracolo, rispettato, temuto per questo, deve poi sapere che tutto questo ha un prezzo, un eccesso, un surplus di responsabilità. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, no?

E invece dopo aver indossato la metaforica armatura digitale dei comunicatori istintivi e compulsivi, eccoli prodursi in una cascata di parole feroci, pericolose, escludenti, spersonalizzanti.

Ed è una china pericolosa. Molto pericolosa.

Perché l’abisso non si presenta mai come abisso. Arriva e si manifesta sotto forme cangianti, e come una slavina origina da un singolo frammento che cadendo si ingrandisce e poi si ingigantisce, una esplosione determinata da qualcosa che nutre l’abisso, lo rende splendente, lo serba, lo cura, lo alimenta. Pezzo dopo pezzo, parola dopo parola, odio su odio.

Le inopinate catastrofi” ha scritto Gadda “non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”.

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