Xi Jinping incoronato dal partito “nuovo timoniere”, la Cina torna al culto della personalità

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Com’era ampiamente previsto, si è concluso senza sorprese il Plenum del Partito comunista cinese, che si era aperto lunedì all’hotel Jingxi di Pechino. Definito talora “conclave rosso”, il Plenum ha ratificato senza problemi l’assoluto predominio di Xi Jinping nel Partito/Stato (e quindi anche nel governo), consegnando l’attuale leader alla storia del Partito e della Repubblica Popolare.

Xi ha raggiunto l’obiettivo grazie alla sua capacità di manovra e dopo aver eliminato in maniera completa tutti gli avversari interni. Il suo scopo era quello di essere proclamato “erede” di Mao Zedong e – in misura subordinata – di Deng Xiaoping. E, per ora, è pienamente riuscito nell’intento.

Ha fatto inserire il suo “pensiero” nella Costituzione cinese imponendolo pure come materia d’insegnamento obbligatorio nelle scuole, onore finora riservato al solo Mao. C’è però una differenza. Mao scrisse molte opere teoriche note anche all’estero, mentre di Xi si conoscono solo interventi e discorsi ufficiali, non dotati di particolare originalità.

Non bisogna inoltre scordare che il Plenum è propedeutico all’evento più importante, vale a dire il XX Congresso del Partito comunista che verrà celebrato nell’autunno dell’anno prossimo. Al congresso Xi si presenterà come “Nuovo Timoniere” erede, per l’appunto, del “Grande Timoniere” Mao Zedong.

E non è tutto. Il Congresso dovrebbe pure eleggere Xi “presidente a vita” pur senza proclamarlo ufficialmente. Verrà infatti abolito il vincolo dei due mandati, consentendo pertanto al 68enne “principe rosso” di ottenere il terzo senza problemi. L’assenza di rivali in grado di contendergli la leadership ha facilitato questo percorso. I rivali che c’erano, infatti, sono stati eliminati e presto dimenticati.

Pronto è anche lo slogan che celebrerà il trionfo: “Mao ha risollevato il popolo, Deng lo ha arricchito, Xi lo ha reso forte”. Con questo l’attuale presidente intende porsi su una linea di perfetta continuità con le due maggiori figure della storia del Partito, rendendo chiaro a tutti che la sua statura di leader è equivalente a quella dei suoi due principali predecessori. La Cina torna insomma al culto della personalità, che la dirigenza del Partito aveva abolito dopo la morte di Mao e la fine violenta della Rivoluzione culturale.

Com’è noto, da molto tempo Xi ha adottato una politica di forte impronta nazionalista. Al pari dello stesso Mao Zedong, si presenta come il “vendicatore” dei tanti torti subiti dalla Cina ad opera dell’Occidente (e della Russia). Si pensi alle “guerre dell’oppio” scatenate soprattutto dalla Gran Bretagna in epoca coloniale, e alla conquista russa di una parte consistente dell’Estremo Oriente asiatico nell’era zarista.

Xi ha infatti promesso che la Cina non sarà mai più divisa o preda di potenze straniere. Di qui l’enfasi sull’annessione di Taiwan (che gli abitanti dell’isola non desiderano per niente), e sull’addestramento di forze armate potenti e in grado di competere con quelle americane. La politica estera di Xi Jinping è quindi diventata sempre più aggressiva, tanto da spaventare in pratica tutte le nazioni che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, oppure che, come l’India, hanno un lungo confine con la Repubblica Popolare nella regione himalayana.

Eppure anche la Cina ha in questo momento problemi enormi. La pandemia di Covid-19 scoppiata proprio nel suo territorio, a Wuhan, non è affatto stata sconfitta, come pretenderebbero gli organi ufficiali. Al contrario, ha causato un rallentamento del Pil dopo molti anni di crescita continua. Il Paese sta inoltre fronteggiando una notevole crisi energetica, mentre non si sa ancora se partito e governo sono riusciti a disinnescare la bolla immobiliare collegata allo scandalo del colosso edilizio Evergrande.

A questo punto è chiaro che la Repubblica Popolare, dopo aver “domato” e neutralizzato la rivolta democratica di Hong Kong, sta ora usando il problema di Taiwan come pretesto per incanalare verso l’esterno il malcontento popolare dovuto alla crisi economica.

E a tale proposito hanno destato molta preoccupazione alcune immagini catturate da satelliti Usa sopra il deserto dello Xinjiang, regione abitata dagli uiguri musulmani perseguitati da Pechino. I satelliti hanno mostrato esercitazioni delle forze armate di Pechino condotte su modelli a scala naturale di navi da guerra americane della Settima Flotta Usa nel Pacifico.

Tali immagini ricordano sinistramente analoghe esercitazioni della marina imperiale di Tokyo prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, evento che scatenò la Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. Con la grande differenza che, ai nostri giorni, un attacco cinese a Taiwan scatenerebbe probabilmente un conflitto nucleare.

Si tratta ora di capire se Xi sia davvero disposto a correre un simile rischio per dare sostanza allo slogan “Una sola Cina”. Il buonsenso indurrebbe a ritenere di no. Ma la mancanza di qualsiasi opposizione nel Partito, unitamente alla debolezza dell’America scossa dal “wokismo”, lascia ampi margini di dubbio.

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