Il martedì di Capaneo – Quelli che Bergoglio… Per una valutazione liberale di un Papa controverso

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Confesso di provare un profondo disagio quando leggo le critiche a Papa Bergoglio formulate dai miei amici – penso a quelli non più tra noi come Paolo Bonetti e Piero Ostellino e ai felicemente vivi e vegeti – che non nascondono una comprensibile diffidenza nei confronti di questo Vicario di Cristo venuto da lontano, da terre su cui non soffia regolarmente (per non dire altro) il vento della “società aperta”. Per entrare subito in medias res, la mia opinione su Bergoglio è che la novitas del suo magistero consiste in una svolta epocale che vede la scissione tra le weberiane “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik) ed “etica della convinzione” (Gesinnungsethik). Papa Francesco testimonia i valori evangelici (quelli del Discorso delle beatitudini) senza preoccuparsi delle conseguenze delle sue parole. “Non è possibile – ha scritto ad esempio in Evangelii Gaudium – che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. (…) Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’, che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono ‘sfruttati’, ma rifiuti, ‘avanzi'”.

È difficile non essere colpiti dall’ineguaglianza che ancora regna nel mondo (si pensi ai 700 bambini greci morti di fame, di cui Federico Fubini non aveva parlato per non urtare i piùeuropeisti) e, per converso, è fin troppo facile ricordare al Papa la “Favola delle api” di Bernard de Mandeville: senza la ricchezze del “capitalista” Pietro di Bernardone, Francesco non avrebbe avuto nulla da distribuire ai poveri di Assisi. Leggere nell’enciclica che “oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole”, fa venir voglia di ricordare a Papa Francesco il “peccato originale” – il “legno storto dell’umanità” a fondamento del realismo liberale – e la triste conditio humana che il vecchio Hobbes sintetizzava nella legge naturale dell’homo homini lupus: guerre, conflitti e violenze ce ne saranno sempre, ma la concorrenza sul mercato è una competizione regolata che rappresenta l’unico modo, finora escogitato dagli uomini, per produrre ricchezza e benessere sociale, purché il fiume dell’economia scorra dentro i sicuri argini di uno Stato forte e autorevole, capace di far rispettare la legge e l’ordine, come teorizzava Luigi Einaudi (un liberale che gli iperliberisti definirebbero oggi un vecchio statalista).

Non procedo oltre, però, nella riscoperta dell’acqua calda e richiamo l’attenzione su una critica rivolta a Bergoglio da uno studioso che stimo molto, Loris Zanatta, il maggior esperto di storia e sociologia dell’America Latina che abbiamo in Italia. In un articolo di qualche anno fa, “Un papa populista” (Il Mulino 1, 2016), Zanatta ha scritto:

“Bergoglio è peronista? Assolutamente sì. Ma non perché vi aderì in gioventù. Lo è nel senso che il peronismo è il movimento che sancì il trionfo dell’Argentina cattolica su quella liberale, che salvò i valori cristiani del popolo dal cosmopolitismo delle élite. Il peronismo incarna perciò per Bergoglio la salutare coniugazione tra popolo e nazione a difesa di un ordine temporale basato sui valori cristiani e immune da quelli liberali. Bergoglio, in breve, è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America Latina”.

A lasciarmi perplesso non è la contrapposizione (giustissima) tra peronismo e liberalismo, ma l’assimilazione della filosofia di Bergoglio a una dimensione Gemeinschaft (comunità), che richiama le tradizioni, le radici, la nazione e, nel suo sbocco totalitario e pagano, il fascismo e il nazismo.

Eh no, caro Zanatta, il pontefice romano si contrappone al cosmopolitismo liberale delle élite (ma poi il liberalismo è davvero cosmopolita? E non rinacque nell’Ottocento, come reazione, non fondamentalista, all’universalismo razionalistico e illuministico?), non all’universalismo in quanto tale. Il populismo, almeno dell’accezione bergogliesca, è cosa ben diversa dal nazionalismo – la cui essenza sta nel primato assoluto della comunità nazionale su tutte le altre. Il pueblo è eguale sotto tutte le latitudini e longitudini e questo fa di Bergoglio il “parroco del pianeta”, non l’esportatore, non gradito e non richiesto, del peronismo argentino. Piaccia o non piaccia, la “filosofia dell’accoglienza” è il versante religioso dei “diritti cosmopolitici”del filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, l’allievo di Bobbio che quasi non vede differenza tra Matteo Salvini e Adolf Hitler.

I proletari non hanno patria, ma non ce l’hanno neppure – a fortiori – i sottoproletari, gli abitanti delle favelas brasiliane e delle baraccopoli argentine, latino-americane, euro-orientali, mediterranee, africane e asiatiche, ai quali si rivolge Papa Bergoglio.

Scriveva Isaiah Berlin di Marx: “I suoi proletari sono una massa di uomini senza sentimenti di attaccamento nazionale, privi di tutto tranne che dei puri mezzi di sussistenza, mera carne da macchine, uomini così miserabili da non avere quasi bisogni propriamente personali, affamati, brutalizzati, sì e no in grado di mantenersi in vita”. Lo stesso discorso, a mio avviso, va fatto per Papa Francesco, che non sarà liberale – come dicono i miei amici – ma che non rappresenta neppure una regressione tribale e premoderna, semmai una desecolarizzazione, una ricristianizzazione del messaggio illuministico. La sua eticizzazione della politica e del diritto fa a pugni con la visione del mondo liberale (la mia), ma non si può nascondere che i Rousseau, i Mably, i Morelly, i Babeuf si richiamavano allo stesso egualitarismo radicale di Bergoglio e che qualche punto di dissenso rispetto ai loro eredi odierni, quasi tutti atei razionalisti (penso al matrimonio e adozione gay, per Zanatta una irrinunciabile conquista di civiltà, sic!), non toglie questa “affinità elettiva”.

Resta il fatto che i temi populisti (ambiente, disoccupazione, emigrazione, le sfide bioetiche etc.) hanno presa sulle masse giacché richiamano problemi reali, non certo inventati dagli antioccidentalisti fanatici, anche se questi ultimi non sanno minimamente come risolverli – una volta eliminati capitalismo e mercato. Le “ricette” di Bergoglio sono “irresponsabili” (nel senso della Verantwortungsethik), ma farne un piazzista del peronismo sa tanto di donferrantismo accademico.

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