L’altra faccia del lunedì – La rivoluzione digitale, non Salvini o Di Maio, ha messo in crisi il sistema parlamentare

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Che sfregio alle istituzioni! Che disprezzo per il “sacro conclave della democrazia”! Un vice presidente del Consiglio che, a metà seduta del Cdm, se ne esce ad arringare folle e giornalisti. Un altro che prima partecipa a una trasmissione tv e poi con comodo arriva. E un altro ancora che si collega via Skype con lo smartphone.

Fossimo segaci di Monsieur Tartuffe condivideremmo questi lai, che abbiamo letto sulla stampa “libera e indipendente” (la stessa che invia mezzo stampa i pizzini dei servizi o delle procure). Peccato che abbiamo la memoria lunga e che ci ricordiamo come la sacralità del concilio della democrazia non fosse propria intonsa, ben prima dell’arrivo dei giallo-verdi.

Ricordiamo consigli dei ministri durati un quarto d’ora, conclusioni anticipate via slide il giorno prima, ministri che con la scusa di andare in bagno (o forse effettivamente di debole vescica) spifferavano tutto ai giornalisti, decisioni assunte collettivamente poi smentite dall’ultimo ministro cinque minuti dopo, telefonini lasciati aperti durante la riunione, persino la partecipazione di chi non avrebbe avuto titolo di esservi.

E non è che noi si abbia materiale particolarmente segreto: basta andare a leggersi le cronache dal 1994 a oggi, con particolare scadimento nel secondo tragico governo Prodi, nell’ultimo Berlusconi e nel Renzi. Senza poi dire che la sacralità delle forme, magari rispettata nell’esecutivo Monti, celava in realtà input sui ministri che venivano da ogni dove.

Apprezziamo quindi la sincerità di Salvini, di Di Maio e di Toninelli nel far capire a tutti che il Re è nudo.

Altrettanto insopportabile è la costante giaculatoria sul Parlamento mortificato. Che in genere viene da sostenitori più o meno vicini all’ex Pci o ex Dc, cioè ai partiti che progressivamente, dal dopoguerra, hanno esautorato il Parlamento e trasferito i suoi poteri e le sue prerogative nelle loro segreterie. Volete sapere come sarebbe andata a finire? Bastava leggersi negli anni Cinquanta le cronache dell’ultimo Don Sturzo, o quelle del Luigi Einaudi post presidenza, o gli interventi di Giuseppe Maranini (l’inventore del termine “partitocrazia”).

Certo, qualcuno obietterà, è questione di grado. Ed è indubbio che nella Prima Repubblica, pur a tutti gli effetti un regime di partito, i gruppi parlamentari riuscirono, in molti casi, a conservare un grado di autonomia rispetto alle macchine politiche, anche grazie all’alto livello medio degli eletti. Mentre nella Seconda Repubblica lo scadimento è stato evidente, e il Parlamento ha perso ancor più prerogative – un rimprovero che possiamo rivolgere in particolare a Berlusconi, la cui rivoluzione liberale aveva promesso anche la fine della partitocrazia e quindi il ripristino della funzione naturale del Parlamento.

Ma non esageriamo a dare addosso al povero Silvio. La realtà è che il regime parlamentare in Italia è di fatto morto. E da tempo, essendo vissuto al limite solo qualche decennio, tra il 1861 e la fine del XIX secolo. Già nell’Italia d’inizio Novecento si parlava di “dittatura giolittiana”, Mussolini non aveva torto a definire Montecitorio un’aula sorda e grigia, e quanto alla Repubblica, il regime parlamentare visse solo perché sorretto da quello dei partiti. In tal senso la polemica dell’ultimo Sturzo, dell’ultimo Einaudi, di Maranini, era nobile ma astratta: il regime parlamentare non poteva reggersi senza quello partitico.

Andiamo oltre. Il regime parlamentare è sul viale del tramonto ovunque. A dirlo non è solo Casaleggio jr, è tutta una letteratura politologica, storica e giuridica, che descrive, e non da oggi, il superamento della democrazia rappresentativa, di cui il Parlamento era la forma massima di incarnazione.

Che si sia entrati in una fase di democrazia post parlamentare è visibilissimo oggi: a parte in Germania, in tutte le democrazie parlamentari i sistemi sono profondamente in crisi, sull’orlo anzi dell’implosione. Il caso più eloquente, a prova della nostra tesi, sta nel Regno Unito, la patria del parlamentarismo. Mai, neppure negli anni Trenta, Westminster è apparso così incapace e al tempo stesso così fratturato al proprio interno. Tra i mille fattori che, per ora, hanno impedito la Brexit sta pure questo, l’incapacità o peggio ancora la mancanza di volontà del Parlamento di incarnare la volontà popolare manifestatasi nel referendum.

Ed è piuttosto probabile che indietro non si torni. Nessuno può seriamente pensare che, superata la “febbre populista” e le “disfunzioni” europee, ripristinati i “liberali competenti” al governo, tutto ritornerà come prima. Questi nostalgici di un regime, quello liberal rappresentativo, per altro mai esistito nella sua purezza, faranno la fine degli arcieri dopo l’invenzione della polvere da sparo. Non solo Montecitorio ma neppure Westminster torneranno a svolgere il ruolo che hanno avuto nel passato. E saranno anzi completamente trasformati dal “nuovo paradigma tecnico economico”, introdotto dalla rivoluzione digitale e dall’intelligenza artificiale, come ritiene l’imprenditore Ian Hogarth, per il quale la Brexit e la disfunzione delle istituzioni rappresentative inglese sono il segnale che questo passaggio è molto più vicino di quanto si pensi (Financial Times, 22 aprile 2019).

Prepariamoci perciò ad assistere a ben altre scene, che a un selfie tra la folla di Salvini o alla faccia di Toninelli sullo smartphone.

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