Benigni a Sanremo, il trionfo dell’Italia cattocomunista

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Per scoprire l’ethos dell’Italia post cattocomunista, progressista, un’italia anagraficamente anziana, benestante e mostruosamente conformista, ma che è comunque un terzo del paese, bisogna guardare a Roberto Benigni. Le polemiche sul cachet troppo elevato sono poco sensate. Perché da un punto di vista di marketing, quei soldi Benigni li vale tutti, essendo forse l’unico che oggi riesca a portare con sé, sotto forma di telespettatori, questi italiani.

Questa Italia ha seguito l’evoluzione ormai quasi cinquantennale dell’attore: comunista berlingueriana negli anni settanta e ottanta, perciò violentemente anti craxiana; occhettiana e giustizialista poi, quindi a lungo anti berlusconiana (il che non ha impedito a Benigni di farsi produrre i film da Berlusconi). Dopo la grande crisi, questa Italia si è un po’ divisa tra postcomunisti, cattolici adulti, renziani e 5 Stelle, e tra Monti, Renzi, Bersani ecc. la stella di Benigni si era infatti offuscata. Ma oggi, con l’Italia de sinistra ritrovatatisi sotto il governo Cagoia, pardon Conte, Benigni può tornare ad essere quello che è sempre stato, un attore di regime. Come capì genialmente a suo tempo Giuliano Ferrara, che oggi forse la pensa come lui, quando organizzò a un Festival di Sanremo contro l’attore un lancio delle uova di matrice papiniana e futurista.

Molti sono i punti di contatto tra l’Italia post cattocomunista e Benigni, talché l’una si rispecchia nell’altro. Il conformismo mascherato da irriverenza. Niente di più conformistico, perché prevedibile, dei woytilacci, dei baci in bocca a Pippo Baudo, delle tirate anti Craxi, anti Berlusconi e oggi anti Salvini. E l’Italia post cattocomunista si sente pure anticonformista, magari perché scende in piazza con le Sardine, plaude ai pirati Ong e alle Carole. O, peggio ancora, pensa di essere irriverente perché esalta l’amore gay, come se ci fosse qualcosa di rivoluzionario nella Italia 2020 a trattare di questi temi, che sono invece diventati il nuovo conformismo. Mai che Benigni parli di operai che muoiono sul lavoro (meglio di no, magari votavano pure Salvini) o mai che il suo love is love lo vada a fare in Iran, dove lì, sì, è davvero anti conformistico.

Il partito del bene. Benigni è da sempre iscritto al partito della pappa del cuore, come dimostrano, più che le sue performance cabarettistiche, quelle cinematografiche, i personaggi sono sempre apparentemente sballati e mattoidi, ribelli addirittura, ma poi finiscono per garantire l’ordine voluto dai buoni. Allo stesso tempo l’Italia post cattocomunista pensa che far entrare tutti gli immigrati sia fare del bene, quando in realtà è azione massimamente perniciosa, perché priva di forza e di energie l’Africa e impoverisce e distrugge la comunità italiana.

Il finto coltismo. Rispetto al Benigni selvaggio dei tempi di Arbore, il migliore anche se già con forti venature conformistiche, il Benigni peggiore è quello colto, o per meglio dire finto o pseudo colto, quello della Divina Commedia, della Vita è bella, della Costituzione più bella del mondo e in ultimo persino della Bibbia.

Lo stravolgimento di Dante, che a ogni studioso del sommo poeta provoca una caduta  dalla sedia, e la  annessione alla Italia post comunista di un poema politicamente reazionario, stracolmo di passione, violenza e fede vera (tutto ciò che manca alla Italia post comunista) rappresenta bene il finto coltismo della sinistra, che vorrebbe misurarsi con i temi fondamentali e le cose ultime ed essenziali ma, essendo priva di categorie e di sguardo in profondità, si riconosce nella letteratura posticcia degli Eco, degli Scurati, dei Carofiglio, delle Murgia, persino dei Volo, oppure si affida a Benigni come volgarizzatore del nulla.

Si potrebbe continuare a lungo con i paralleli. Ma non vogliamo annoiare il lettore anche perché avrà capito che a noi, per parafrasare Giovanni Amendola, questa Italia di Benigni proprio non piace. Anzi, ci fa un po’ ribrezzo.

Marco Gervasoni, 7 febbraio 2020

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