Biocarburanti, l’Europa sbaglia ma anche noi

Non bisogna porre troppa fiducia nei bio-fuel e nell’energia da materiale vegetale

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Se quella degli e-fuel è un’idea balorda dei fenomeni che siedono a Bruxelles, non bisogna porre troppa fiducia nei bio-fuel e, in generale, nell’energia da materiale vegetale o, ancora più in generale, nell’energia dal sole (con eccezione dell’idroelettrico). Al pretenzioso e sofisticato termine di biomassa non corrisponde altro, sostanzialmente, che la legna da ardere, dalla quale proviene la maggior parte del contributo “solare” all’energia consumata nel mondo sottosviluppato. Che è tale proprio perché non ha accesso all’uso d’energia: quel poco che lì consumano la trovano disponibile bruciando gli alberi delle loro foreste. È energia solare perché è il sole che consente la fotosintesi che, a sua volta, fa crescere gli alberi. Questi crescono più lentamente di quanto non sono consumati nella combustione, circostanza che ha fatto sorgere il problema della deforestazione.

I paesi sviluppati o in via di sviluppo – ove sono possibili altre fonti d’approvvigionamento energetico (combustibili fossili, nucleare e idroelettrico) – ne fanno pochissimo uso: la biomassa è una fonte primitiva, inquinante e irrispettosa dell’ambiente. Ed è inefficiente perché inefficiente è la fotosintesi. Si può calcolare che per soddisfare con legna da ardere il 10% del nostro fabbisogno elettrico  dovremmo usare l’intero patrimonio boschivo italiano. Nel tempo s’è fatta largo l’idea di servirsi di agricoltura dedicata per coltivare vegetali per la produzione di carburanti per l’autotrazione: i biocarburanti (bioetanolo e biodiesel).

L’etanolo è il comune alcol etilico e può essere usato come carburante per autotrazione; ci si riferisce ad esso come bioetanolo quando è prodotto da materia prima vegetale. Naturalmente, la pianta non produce spontaneamente il bioetanolo: esso è il prodotto finale di un complesso processo industriale che comincia con la fermentazione naturale degli zuccheri. L’idea, allora, è di coltivare un vegetale appropriato – ad esempio mais – per produrre da esso etanolo adatto ad essere usato come carburante per autotrazione. Secondo i proponenti, il vantaggio sarebbe duplice: si riduce la dipendenza dal petrolio e non si immettere in atmosfera anidride carbonica (CO2). Infatti, anche se l’etanolo quando brucia immette CO2 in atmosfera, la pianta – il mais, nel nostro esempio – per crescere avrà assorbito dall’ambiente pari quantità di CO2. Insomma chi demonizza la CO2, alla fine deve ammettere che essa è il cibo delle piante.

Però, per produrre un alcol adatto come carburante è necessario, innanzitutto, eseguire sul prodotto primario della fermentazione una distillazione frazionata, che è un processo industriale che consuma una quantità di energia non trascurabile rispetto all’energia liberata dalla combustione del bioetanolo. Altra energia viene consumata nelle fasi di semina e di raccolto, nella produzione dei fertilizzanti, nella distribuzione del carburante finale. Insomma, per valutare se ha senso o no produrre etanolo da usare come carburante bisogna valutare anche il guadagno netto di energia, dato dalla differenza tra l’energia ricavata dalla combustione del bioetanolo meno l’energia spesa nell’intero processo, dalla semina alla distribuzione del prodotto finito.

Il dibattito se la produzione di bioetanolo è, in termini di energia netta, un processo in guadagno o in perdita ha coinvolto diversi analisti. Questo dibattito a noi non interessa perché il fatto è che, accettando per il bioetanolo le più generose condizioni rispetto a qualunque stima di qualunque analista, bisognerebbe impegnare a mais l’intera pianura padana per sostituire solo il 10% del carburante per autotrazione che consumiamo. I fiduciosi guardano al Brasile, che sostituisce con bioetanolo il 25% del carburante per autotrazione che consuma (quindi il 75% è ordinario carburante). Non tengono conto, costoro, che: 1. la domanda brasiliana di carburante per autotrazione – e, in generale, d’energia – è  uguale a quella italiana, sebbene la popolazione brasiliana sia tripla di quella italiana (in breve, in Brasile sono più poveri di noi); 2. il clima tropicale consente di produrre l’etanolo dalla canna da zucchero che, a parità di superficie coltivata, ha rese d’etanolo doppie di quelle da mais; 3. la superficie del Brasile è 30 volte maggiore di quella italiana. Alla fine della fiera è come dire che se la popolazione italiana fosse di 2 milioni d’abitanti, questi potrebbero coltivare a mais un decimo della superficie della penisola ed emulare il Brasile.

Anche la produzione di bioetanolo da coltivazioni lignee mediante un processo di fermentazione degli zuccheri contenuti nella cellulosa o la produzione di biodiesel da coltivazioni di piante oleaginose (soia, girasole) non promette niente di strabiliante. Nel 1999 il National Research Council (Nrc) americano scriveva: «Il bio-diesel non ha speranza, nel prossimo futuro, di diventare un combustibile economicamente vantaggioso. In Europa, senza sussidi agli agricoltori, il bio-diesel non sarebbe competitivo. E sebbene alcuni mercati di nicchia siano stati creati praticamente con la forza della legge, il bio-diesel resterà troppo costoso per diventare un combustibile economicamente vantaggioso». Sembra che la previsione di 24 anni fa del Nrc fu azzeccata.

In ogni caso, se ci si chiede quale frazione del consumo totale di carburante per autotrazione risparmierebbe l’Italia se tutto il raccolto italiano di soia fosse convertito in biodiesel e se l’energia spesa per produrre soia e biodiesel fosse nulla, la triste risposta è: inferiore allo 0.0001 per cento.

Franco Battaglia, 29 aprile 2023

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