Bloomberg, storia di un disastro elettorale

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Joe Biden un candidato fragile se non proprio senile, che rischia di crollare lasciando campo libero alla sinistra del partito, guidata dal socialista anti-ricchi Bernie Sanders. Questa deve essere stata l’analisi del magnate ed ex sindaco di New York, Mike Bloomberg, quando ha annunciato la sua partecipazione alle primarie.

L’analisi era anche giusta. La strategia è stata pessima. Per prima cosa, una valanga di soldi. Bloomberg ha speso per la campagna elettorale oltre 500 milioni di dollari. Un bombardamento a tappeto di spot televisivi, radiofonici e social, in ogni stato della nazione. Come paragone, Bloomberg ha speso nelle ultime settimane in annunci pubblicitari quanto tutti gli altri attori politici messi insieme (Trump e repubblicani compresi).

Altro pilastro della strategia, saltare completamente i primi 4 stati delle primarie (Iowa, New Hampshire, Nevada e South Caroline) e puntare direttamente al Super tuesday, il supermartedì elettorale dove votano, tutti insieme, 18 stati (più il territorio delle Samoa Americane). Una strategia inconsueta già tentata, con esiti fallimentari, nel 2008 da Rudy Giuliani. Ma questa volta sarà diverso, giusto?

Il supermartedì elettorale è arrivato e per Bloomberg il bottino è stata una vittoria. Non la California, non il Texas. Mike Bloomberg ha messo la sua bandierina sulle… isole Samoa. Un territorio con 50 mila abitanti, dove alle primarie democratiche hanno votato esattamente 351 persone. Bloomberg è arrivato primo con 175 voti. Ripetiamo. Mezzo miliardo di dollari per 175 voti.

Inevitabile a questo punto il suo addio dalle primarie. Non ha vinto la nomination, la campagna elettorale di Bloomberg ha rischiato di ottenere esattamente l’effetto opposto di quello che si proponeva. La presenza di Bloomberg non ha danneggiato il progressista Sanders, ma ha rischiato di affossare definitivamente Joe Biden. Invece di bloccare l’ascesa della sinistra radicale, Bloomberg ha frammentato ulteriormente il fronte dei moderati, scettico fin dall’inizio su Biden. Quello che probabilmente ha cambiato tutto è stata la sua prima (e ultima) partecipazione al dibattito televisivo del 19 febbraio, prima delle primarie in Nevada. Il fattore caso ha giocato un ruolo importante in tutta la vicenda.

Bloomberg ha partecipato a quella diretta televisiva perché un singolo sondaggio sulle intenzioni di voto, pubblicato prima della deadline, gli ha fatto superare i criteri di ammissione (per partecipare a quel dibattito, il partito democratico aveva fissato una soglia del 10% di preferenze in almeno 4 sondaggi).

Oggi Bloomberg sa che non avrebbe mai dovuto partecipare a quel sondaggio. Ed è ironico notare come i progressisti abbiano subito gridato al complotto dell’establishment quando la partecipazione di Bloomberg è stata annunciata. Il dibattito del 19 febbraio è diventata la tomba delle ambizioni di Bloomberg. Attaccato da tutti gli altri candidati, come era prevedibile, è apparso inefficace, incapace di difendersi, out of touch con la realtà del paese. Sarebbe stato meglio rimanere defilato e continuare a nascondersi dietro il finto, idealizzato Bloomberg dei suoi spot elettorali.

La morale è che, nonostante tutta la retorica sullo strapotere dei ricchi e delle corporation, con i soldi non si comprano i voti, almeno non in America.

Lo stesso Bernie Sanders ha investito moltissimo in questo supermartedì, con una rete di uffici, sparsi capillarmente in tutti gli stati chiave. I finanziamenti di Sanders che, è il caso di sottolinearlo, provengono in grandissima parte da micro contributi dei suoi sostenitori, sono comunque ingenti. Eppure, alla fine, è stato Joe Biden, con un forziere molto più ridotto, ha uscirne trionfante.

Ma del resto questo lo si era già visto anche nel 2016, quando un certo Donald Trump è riuscito a conquistare nomination e presidenza, spendendo molto meno della maggior parte dei suoi competitor repubblicani e della candidata Dem Hillary Clinton.

Stefano Varanelli, 6 marzo 2020

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