Caro Porro, per avere i ristori ci arrendiamo al regime

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Caro Porro,

sono un avvocato di provincia: poco libero professionista e di questi tempi ancor meno libero cittadino. Da quando è iniziata l’emergenza aspetto che qualcuno, laggiù dove si prendono le decisioni (lassù mi sembra inappropriato quando penso a Speranza), si accorga di stare calpestando le vite e gli averi di quanti, con lo studio o l’impresa (ma anche con lo studio e l’impresa), si sono costruiti una propria attività.

Vedo morire piccole e meno piccole realtà ormai ogni giorno e non riesco a farci l’abitudine, perché penso che insieme ad esse si perde il patrimonio netto della nostra indipendenza civile ed economica. Spariscono le aspettative e con esse la voglia di migliorare, di trovare soluzioni, di essere intelligenti. La cosa peggiore, però, non è fallire. Tutti quelli che iniziano un’attività in proprio sanno che può finir male. No, la cosa peggiore è crepare in questo modo miserabile, senza neanche la dignità di poter lottare: per lento avvizzimento.

Se la consunzione delle aspirazioni di quanti, come me, avrebbero voluto continuare a plasmarsi la vita e la bottega servisse almeno a qualcosa, se contribuisse a spingerci fuori da questo incubo, salvando delle vite, preparando la rinascita almeno me ne farei una ragione. Se qualcuno di quei signori con la mano e lo sguardo fissi sulla leva del cambio avesse almeno chiesto scusa passando sui nostri corpi dopo l’ennesima retromarcia, mi sarei almeno illuso di contare qualcosa, avrei creduto che, davvero, avessero ed abbiano a cuore la vita della gente. Ma non è stato e non è così.

Ci stanno premendo un cuscino sulla faccia, un cuscino fatto di provvedimenti irragionevoli, contraddittori e inutilmente repressivi, senza una giustificazione, senza un dibattito politico e scientifico, senza rispetto per la nostra libertà e intelligenza. Già… perché quando ci dicono che il negozio di abbigliamento può stare aperto per vendere le mutande da asporto e le camicie, invece, solo a domicilio, quando ci raccontano che il caffè preso da asporto e fino alle 18 previene il contagio, quando essere a casa alle 22 copre la nazione dal Covid-19 ci stanno dicendo che 2+2 fa 5, privandoci della libertà e intelligenza.

E se ci azzardiamo a far presente, sommessamente, che 2+2 fa 4 e non 5 veniamo tacciati di negazionismo, di mancanza di umanità: “Ci sono i morti!” È vero, ci sono i morti e così, in questo mondo che si dice illuminato dalla ragione, abbiamo perso la facoltà di contestare i risultati che non tornano, i principi di diritto positivo non rispettati.

Così, a furia di aprire il giornale e di leggere sulla lavagna luminosa la somma orwelliana, pur di ricevere anche io quella misera elemosina, quel benedetto sessanta per cento di un dodicesimo del trenta per cento in meno dell’anno prima, dirò che sì: 2+2 fa 5. Temo però, che prima di sganciarmi il bonifico mi chiederanno anche di crederci.
Con stima

Antonio Noccioli, 5 aprile 2021

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