Caso Pegasus: la prova che siamo tutti spiati

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Quando è scoppiato il famoso caso Pegasus s’è assistito al solito giudizio di parte dei media, per poi risolversi presto in una notizia abbandonata. Era partito tutto da una fuga di notizie che ha portato a un’indagine clamorosa: attivisti, giornalisti, avvocati e politici sono stati messi sotto sorveglianza da parte di diversi governi grazie a un software militare. Le attività di spionaggio sarebbero state rese possibili tramite un malware di nome Pegasus, venduto dalla società di sorveglianza israeliana Nso Group, che consente di estrarre dagli smartphone – sia iPhone che Android – foto, messaggi, e-mail e dati, ma anche di registrare chiamate e far partire il microfono all’insaputa del proprietario.

Mentre la procura di Parigi apriva un’inchiesta, il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen giudicava la vicenda come “totalmente inaccettabile, se vera”. Osservazione che fa sorridere se si pensa che il primo pentito del famoso scandalo Echelon è del 1993. Nel 1988, un articolo intitolato Somebody’s listening, riportò per la prima volta l’esistenza del programma Echelon. Avviato da Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti, mise alla luce come le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale avessero creato un rete di intercettazioni globali. Nel 2001, un‘indagine del Parlamento europeo lo definì, “un sistema globale di intercettazione di comunicazioni private e commerciali”.

Trent’anni di intercettazioni

Nel 2013, fu la volta di “Datagate”. Dalle rivelazioni di Edward Snowden venne fuori che la National Security Agency – britannici e statunitensi – si serviva di programmi di spionaggio di massa per avere libero accesso ai dati telefonici ed e-mail dei capi di governo europei. Mettendo da parte i rudimentali, eppure efficientissimi, strumenti di controllo sovietici, sono almeno 30 anni che vanno avanti intercettazioni e azioni di spionaggio ai danni di aziende, governi, leadership comuni cittadini. “I telefoni del caso Pegasus fanno parte di una lista di oltre 50 mila utenze, individuate in Paesi noti per impegnarsi nella sorveglianza dei cittadini e noti anche per essere Stati clienti dell’azienda israeliana Nso Group”, ha scritto il Washington Post che ha condotto un’inchiesta con altri sedici media. E le reazioni dell’inchiesta sui media hanno puntato il dito ovviamente solo contro Orban: obiettivo privilegiato del politicamente corretto. Tant’è che la replica ironica del premier magiaro non s’è lasciata attendere, “avete fatto le stesse domande ai governi del Regno Unito, Germani, Francia o Stati Uniti?”

Con i cellulari sempre più spiati

Sarebbero stati controllati politici, attivisti per i diritti umani, avvocati, personaggi del mondo religioso e circa 180 giornalisti delle più importanti testate giornalistiche al mondo.
Quello di Pegasus non è un sistema di spionaggio raro e non si tratta di una tecnologia detenuta in esclusiva. Motivo per il quale il sistema rappresenta una minaccia per i tutti ed è sempre più in crescita. Indipendentemente che se ne servano regimi, strutture private o governi democratici in gran segreto: possiamo essere spiati senza rappresentare un pericolo per un governo o una nazione. Questo perché i cellulari, oggi, sono utilizzati per qualsiasi cosa, da ogni sorta di acquisto al green pass fino al diario di bordo con localizzazione che sono i social. I dati di ogni semplice cittadino hanno un valore enorme.

Come mai non si punta allo sviluppo di tecnologie in grado di proteggere i cellulari da spyware? Come mai non è contemplato un modello, in primis culturale, agli antipodi di quello ossessivo compulsivo con telefonini e social? “Sono sorpreso dal vedervi sorpresi”, così Edward Luttwak ha commentato il caso Pegasus a Formiche.it. Luttwak, un passato alla Casa Bianca e al Pentagono come stratega militare, si prende gioco del finto stupore occidentale. E spiega che non si tratta di un sistema in mano a governi autoritari: sarebbero troppo pochi i clienti e l’azienda già sarebbe fallita. La Nso Group, invece, è una compagnia che produce spyware, ha più di 700 dipendenti in giro per il mondo e un fatturato stimato in 250 milioni di euro. Luttwak era davvero divertito dal fatto che solo ora la stampa scopra – o finga di scoprire – che un cellulare può essere violato senza fatica. Come evitarlo? “Come ho fatto io: un cellulare da quindici euro che non abbia internet né una telecamera”.

Il Grande Fratello cinese

D’altronde quello dei cosiddetti software maligni è un mercato e certamente Pegasus non dispone di alcun monopolio. Il controllo di dissidenti e terroristi è solo una piccolissima percentuale di quel che gravita intorno a questo mondo. Pechino ne è l’esemplificazione plastica. I cellulari degli europei sono spiati per sottrarre informazioni commerciali e scientifiche. Mentre quelli dei cinesi stessi rientrano nel controllo politico e militare. E quando si parla di “informazioni commerciali” non si tratta solo di dati che servono ad orientare la pubblicità. Ma l’attività di spionaggio subentra prima delle trattative commerciali tra produttori occidentali e cinesi: sono spiate le strategie dell’imprenditore francese, per esempio, che racconta al collega a quanto intende vendere in Cina il foulard confezionato. E prima ancora che atterri a Pechino, l’acquirente cinese è già stato informato della trattativa dai servizi segreti. Altra cosa sono, poi, i cosiddetti “trojan”. Quelli usati dalla magistratura per entrare nei cellulari degli indagati. Ma là non si tratta di software, come nel caso di Pegasus, che possono essere acquistati, ma di virus.

A febbraio di quest’anno, s’era tornati a parlare di privacy. In qualunque angolo del mondo, tranne in Europa, il fruitore di whatsapp ha dovuto acconsentire a queste modifiche, pena l’inutilizzo della piattaforma. In Europa, però, il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati in vigore dal 2016, vincola un po’ di più la libertà di movimento del colosso californiano. Ma fuori dell’Ue, Facebook ha carta bianca e alcun vincolo di utilizzo dei dati. A marzo 2021, la Corte Suprema degli Stati Uniti sbatteva la porta in faccia a Facebook e al suo tentativo di ricorrere in appello contro la decisione presa da un giudice californiano. La cosa gli potrebbe costare 15 miliardi di dollari: è la cifra chiesta con una class action che riunisce oltre 20 denunce contro la società di Zuckerberg per aver tracciato gli utenti, in particolare tra il 2010 e il 2011, senza consenso. Le informazioni sarebbero poi state vendute ad altre realtà intente a impiegarle per finalità di marketing e per l’erogazione di inserzioni pubblicitarie mirate, costituendo così una violazione del Wiretap Act, la legge sulle intercettazioni.

Nel 2018 un’inchiesta del New York Times ha rivelato come decine di app iOS e Android abbiano utilizzato in modo inappropriato i dati di localizzazione degli utenti vendendoli a terzi e consentendo di identificare le singole persone, di conoscerne le abitudini e mostrare loro pubblicità molto mirate.
LinkedIn ha utilizzato i dati di 18 milioni di non iscritti per realizzare annunci mirati su Facebook. E Google ha dovuto chiudere il suo social network Google+, dopo che erano stati messi a rischio oltre 52 milioni di profili. Resta misterioso, però, a fronte di tutto questo spionaggio, come sia possibile che sui social si riuniscano tranquillamente islamisti che fanno corsi artigianali su come costruire una bomba e organizzare attentati, ma non vengano mai intercettati. Così come per la piaga della pedofilia: in Europa leggi pavide non rafforzano le difese contro questo tipo di abuso. E qualcuno sostiene anche che c’entri il “principio di non discriminazione per orientamento sessuale”.

Lorenza Formicola, 6 agosto 2021

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