Cinque anni dopo Charlie siamo ancora inermi di fronte all’Islam

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Sono passati cinque anni e non è cambiato nulla, titola l’editoriale di oggi del “Figaro” il principale giornale di area conservatrice francese. Un lustro dall’attentato islamista a “Charlie Hebdo” ma anche, per quanto meno ricordato, ad un supermercato ebraico della capitale, l’Hypercacher.

Anche se il numero di vittime fu inferiore rispetto ai colpi che, nell’autunno di quell’anno e nell’estate di quello successivo, a Parigi e a Nizza, avrebbero infierito sulla Francia, oggi Charlie Hebdo è ricordato come l’inizio della seconda fase dell’attacco islamista all’Occidente: la prima essendo cominciata con l’11 settembre e che insanguinò Londra e soprattutto Madrid.

Eppure già ai tempi di Charlie Hebdo si cominciava a capire che qualcosa non funzionava, perché l’Occidente, e l’Europa in particolare, non avevano nessuna intenzione di difendersi. Sì certo, la grande marcia dei capi di stato tutti abbracciati; ma non c’era il presidente americano Obama, non a caso, e soprattutto nessuno nei discorsi ufficiali volle persino nominare la parola I: islam.

Non c’è da stupirsi se oggi la situazione sia la stessa. Se non riesci a comprendere le radici politico-culturali del nemico, non potrai mai a batterlo con la semplice repressione. Repressione che, tra l’altro, diversamente dagli americani dopo l’11 settembre, i governi europei sono stati assai blandi nel praticare, timorosi di violare i «diritti dell’uomo» degli sgozzatori e delle bombe umane, non sia mai.

Le radici sono quelle di un islam religione politica il cui progetto è la conquista dell’Occidente attraverso l’immigrazione, e la trasformazione degli immigrati e dei loro figli, spesso persino di terza generazione, in soldati di Allah. Chi sono le avanguardie di questo progetto? Ovviamente gli imam, sostenuti però e foraggiati dalle diverse monarchie del Golfo. Accanto a ciò, c’è poi il vero e proprio terrorismo di Stato della teocrazia islamica di Teheran.

In cinque anni non si è fatto nulla, se non pannicelli caldi. Non si è fatto nulla sul piano interno per rompere quelle comunità chiuse, in Francia, nei paesi Bassi, in Belgio, in Gran Bretagna, in Germania ma ora persino in Svezia e in Finlandia, le Moleenbek in cui cresce sia un odio spontaneo verso l’occidente sia un odio costruito e pianificato.

E se è vero che gli attentati più pesanti si sono placati dopo la fine dell’Isis, è anche vero che, come scrivono gli esperti, siamo entrati nella fase del terrorismo diffuso – che solo tre giorni fa ha mietuto vittime a Parigi.

La situazione è per certi versi anzi persino peggiorata. Finite le mitragliate nei bar e i camion lanciati sulla folla, molti pensano che il terrorismo islamista sia stato sconfitto. E la consapevolezza culturale della sfida, già debole all’epoca, si è fatta ancora più flebile. Pochi giorni fa a Parigi i giudici hanno derubricato a gesto di ubriachezza le torture e il brutale omicidio, da parte di un islamico, di una sua vicina, Sarah Halimi, macellata in quanto ebrea, e tutto ciò in una zona centrale di Parigi. E la comunità ebraica, che si sta svuotando perché sono numerosi gli ebrei francesi in fuga verso Israele, è sempre più allarmata di un antisemitismo quotidiano.

Neonazisti? Si, qualche demente c’è. Ma soprattutto islamisti. Alleati ormai con l’estrema sinistra. Qualche settimana fa abbiamo potuto vedere, a Parigi, una manifestazione contro la «islamofobia», organizzata dal partito di Mélenchon, arrivato quarto alle presidenziali, piena di uomini barbute e donne velate, e di Allah Akbar a go go. E vi hanno preso parte, sia pure a titolo personale, persino alcuni deputati del Partito socialista, quello che stava al governo ai tempi di Charlie Hebdo, del Bataclan, e di Nizza.

Perché stupirsi se non è si fatto molto? Ma anche con Macron le cose non vanno meglio: se il presidente ha indurito le sue posizioni sull’immigrazione, resta una figura molto vicina alle diverse comunità islamiche. E il ministro dell’interno, l’ex socialista (ecco) Castaner, si è impegnato assai di più a far pestare i gilet jaunes che a reprimere le reti islamiste, fino alla grottesca scoperta, qualche settimana fa, che un «radicalizzato» operava nei reparti di polizia specializzati a combattere la… radicalizzazione. E si è scoperto solo perché questo ha ammazzato i suoi colleghi.

Con l’islam abbiamo un problema, Houston. E lo si vede dai giornali italiani, ma anche da quelli francesi, persino le «Figaro», tutti a piangere sempre oggi per il martire Souleimani. Che, informo, era il braccio operativo del terrorismo della Repubblica islamica, un’entità che dacché esiste, nel 1979 ha organizzato centinaia di attentati in tutto il mondo. È islam sciita, certo, e non sunnita come quello di Bin Laden e di Isis. E se e Teheran non intende forse conquistare l’Occidente, certo vuole distruggerlo. E qui pare si abbia tutta l’intenzione di lasciar fare.

Marco Gervasoni, 7 gennaio 2020

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