Commovente e orrenda: ecco la storia di Jacqueline Jencquel

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Il Caffè è un giornale che ogni domenica trovi in appositi contenitori, posti in punti strategici delle città della Svizzera italiana. Domenica scorsa riportava un’intervista a Jacqueline Jencquel che mi ha messo in crisi, al punto che per alcuni giorni non sono riuscito a scrivere i miei Camei. L’intervista, all’apparenza un racconto salottiero dell’alta borghesia cosmopolita europea, si è innescato in un mio momento di riflessioni (folli) su quale sarà il mondo in cui vivranno i miei nipotini. Il libro al quale lavoro da una decina d’anni è giunto a un punto di non ritorno: con il coautore (un giovane, brillante accademico) e un giovane uomo di cultura che ci supporta: dobbiamo deciderne il titolo.

Jacqueline Jencquel un tempo si sarebbe definita una signora alto borghese. Nasce a Tientsin (Nord-Est della Cina) nel 1943, a sei anni la sua famiglia si trasferisce a Marsiglia. Nei giorni scorsi diventa improvvisamente famosa, preannunciando che nel gennaio del 2020 ci sarà il suo suicidio assistito in Svizzera. Perché lo fa? Ha coniato una locuzione non indimenticabile: “La vecchiaia è una malattia incurabile, il cui pronostico è sempre fatale”, e dalla vecchiaia (non dalla malattia) ha deciso di uscire attraverso la “dolce morte”. Ha già organizzato tutto avvalendosi dalla Fondazione svizzera Lifercircle, presieduta dalla sua amica Erika Preisig

Nell’intervista lei si racconta. In Germania incontra il suo futuro marito, si sposano, si trasferiscono in Venezuela, dove lui è importatore di Mont Blanc. Nascono tre figli. Lo stile di vita che racconta è impregnato del tipico “edonismo reaganiano” anni ‘80: tuffi nei mari del Caribe durante l’anno, inverni sulla neve a Gstaad. Il marito trascorre il tempo sui campi da golf, nelle varie club house pratica la sua attività di intermediazione. Lei scrive, orgogliosa, di non aver mai lavorato perché si considera un’intellettuale, rifiuta il ruolo di nonna, assicura di aver amato molto. Ora, a 75 anni dice di essere sola: il marito si è ritirato a Gstaad con una giovane donna, un figlio se ne è andato a Bali a fare l’architetto d’interni, quello che vive a Parigi non la vuole più vedere. Invece, quello in Germania ha deciso di supportarla nella “dolce morte”. Non solo, ha convinto la madre di farne un docufilm con lui regista. Il milieu sociale mi pare lo stesso dei Buddenbrook, seppur in digitale.

Questa di pianificare la propria morte al gennaio 2020, ma di cominciare nel 2018 le riprese cinematografiche del relativo processo la trovo l’apoteosi di una vita vissuta secondo il protocollo del perfetto consumatore ideologico che sta alla base del Ceo capitalism. Nel copione del docufilm è infatti previsto un grande pranzo a Saanen (Gstaad è una sua frazione) alla quale Jacqueline vorrà intorno a se tutti i membri della famiglia. Ci sarà, immagino, un superchef stellato, affittato alla bisogna, il menù vedrà una successione di amuse bouche che ricorderanno la cucina dei tanti paesi nei quali costoro sono vissuti?

Ci sarà la compagna del marito? Ci sarà l’ultimo suo “amore impossibile”, un giovane uomo con il quale “ha scoperto l’Italia e il sesso di testa”? Il figlio parigino verrà? Quello di Bali, l’unico che non vuole che la mamma si suicidi, ci sarà? Il figlio artista sarà il regista, ha pure scritto il finale del docufilm: a fine pranzo, Jacqueline saluta tutti e se ne va in auto con la dottoressa-amica Erika, nel frattempo lui avrà filmato tutto. La seguirà, con telecamera incorporata, nella clinica per assistere alla definitiva sconfitta della vecchiaia in un elegante loculo frou frou?

È una storia bellissima, e orrenda al tempo stesso (com’è il mondo del Ceo capitalism), mentre leggevo l’intervista mi sono commosso, per tre giorni ho smesso di scrivere Camei, questa vicenda mi aveva rapito, e al contempo depresso (per un istante non ho potuto fare a meno di pensare al mio Cancro). Ho cominciato a riflettere, come scrittore mi sono eccitato, mi sono detto, vado a Saanen e le parlo del nostro libro. In fondo lei rappresenta l’apoteosi del Ceo capitalism,i è un’eroina di un mondo che ha dominato l’Occidente per un quarto di secolo, e la sua “Ruling Class” vorrebbe farlo per un millennio. Lei è la Musa, a sua insaputa, del nostro libro. E con lei la sua famiglia, all’apparenza così sbrindellata, in realtà così digital-moderna, con il solo figlio più giovane rimasto umano.

A questo punto, ho capito che non dovevo incontrare Jacqueline, lei era il prototipo umanoide del Ceo capitalism, il riferimento culturale del nostro libro, doveva rimanere sullo sfondo, un’icona. Che bello sarebbe se il Ceo capitalism, preso atto del suo fallimento, si ispirasse a lei, e si avviasse, serenamente, accompagnato dalla dottoressa Erika Preisig, alla sua eutanasia. Purtroppo non sarà così, il führerbunker digitale incombe.

Riccardo Ruggeri, 5 ottobre 2018

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