Conte e la guerra Colao-Draghi

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Il dopo Conte è già iniziato e nel risiko del potere è partita una nuova sfida, quella tra Colao e Draghi. Sullo sfondo le grandi alleanze che si vanno formando, da Washington a Londra, da Berlino al Vaticano. Con un convitato di pietra pronto ad intervenire, la Cina. Ad uscire sconfitto è “Giuseppi”, asserragliato nella torre d’avorio di Palazzo Chigi con il valletto Rocco Casalino dopo aver riacceso, con mille decreti, la guerra del Governo contro Regioni e comuni. Ma se il buon giorno si vede dal mattino, Vittorio Colao, che ieri ha discusso animatamente per la prima volta proprio con il Premier, neanche più al Quirinale, che l’ha fortemente voluto, sembra un generale all’altezza.

Primo della classe, tanto puntiglioso quanto poco creativo, Colao è solo la contromossa di un gruppo di potere per cercare di rendere più difficile la corsa per Palazzo Chigi di Mario Draghi dove, peraltro, quest’ultimo non pensa proprio di andare, puntando direttamente al Quirinale. Ma, a parte la narrazione entusiastica, chi sono gli sponsor e cosa faceva il super manager a Londra dopo che, in anticipo e certamente non per sua volontà, bensì per i non brillanti risultati, aveva lasciato Vodafone? Fondamentalmente andava in bicicletta per le campagne e si annoiava, il fondo General Atlantic non riusciva a sfamare il suo ego, convinto com’è di essere il nuovo Marchionne, del quale non ha mai dimostrato né la statura internazionale, né la necessaria conoscenza di un sistema complesso come quello italiano.

A spingerlo nelle braccia di Mattarella, prima in funzione anti Conte e poi anti Draghi, è stata una manovra accerchiante che politicamente ha due nomi, Enrico Letta e Paolo Gentiloni, con l’appoggio di tutto un mondo cattolico, tra cui spiccano Massimo Tononi, ex presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Romano Prodi, i soliti Guzzetti e Bazoli e i consulenti di McKinsey che l’ha sempre sponsorizzato e che ora lui ‘ricambia’, con forza, in ogni dove. In verità l’ex capo di Vodafone, logorato dalla mancanza di potere, non agognava altro che un rientro in Italia da protagonista, ma è caduto in una trappola infernale. Non essendo un cavallo di razza, è inciampato nello stesso ostacolo di vent’anni fa, quando Guido Roberto Vitale lo convinse ad andare a guidare, assicurandogli pieni poteri, Rcs MediaGroup. Allora, come oggi, si scontrò con una pletora di prime donne che non seppe gestire, finendo travolto per non aver mediato né con il direttore dell’epoca Paolo Mieli né con azionisti di peso come Marco Tronchetti Provera, Diego Della Valle e Cesare Geronzi.

Oggi, presiedere una squadra assurda sparsa per il mondo e di fatto non avere alcuna voce in capitolo, forse non era proprio quello che si era immaginato sentendosi già a Palazzo Chigi. Il contentino di inserire nel team un suo vecchio compagno d’arma, Giovanni Gorno Tempini, e Stefano Simontacchi, partner del potentissimo studio Bonelli Erede, – anche se il vero consigliori di Colao è l’avvocato Marcello Giustiniani, sempre dello stesso studio – gli fa rimpiangere i bei tempi delle lectio magistralis, in cui professava una libera magistratura in un libero Stato, così come in Inghilterra. Qualcuno deve avergli fatto capire che nel Bel Paese non basta un passato militare per salvarsi dai Pm e pertanto sta cercando prima di tutto un salvacondotto.

All’interno della sua stessa task force ha invece notato subito, da bravo ex carabiniere, che l’infiltrato del Quirinale, e specificatamente del potente segretario generale Ugo Zampetti, è Enrico Giovannini, ex Ministro del lavoro del governo Letta, ma soprattutto uno dei nomi nel taschino di Mattarella per il dopo Conte, seppur per questo ruolo la prima scelta del Presidente della Repubblica resta sempre Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale. Il gruppetto d’assalto che fa il tifo per Colao a cui si è aggiunto furbescamente in corsa Matteo Renzi, pensa a lui in chiave squisitamente europea vista la sua repulsione per Donald Trump. L’inglesità di Colao piace ad un altro innamorato come lui di tecnologie e piattaforme digitali, Davide Casaleggio, che ha passaporto UK.

Il guru del Movimento 5 Stelle, vicino ai big tech cinesi, sa pure che General Atlantic, il fondo di Colao, di atlantico ha solo il nome. Investe, infatti, massicciamente nel paese del dragone e ha una decina di società cinesi in portafoglio che si occupano di piattaforme streaming e biomedicali. Mentre Draghi, al contrario, è considerato da sempre, per studi, vocazione e rapporti, l’italiano più vicino alle lobby di potere Usa, con Goldman Sachs in testa. Per super Mario si sta infatti muovendo il Deep State americano, deciso, nell’ordine, a polverizzare il M5S, ormai considerato primo partito cinese d’Italia, a spezzare l’asse Vaticano-Mattarella, che offre copertura all’influenza di Xi Jinping in Italia, e soprattutto a evitare che l’Italia, per salvarsi dal default, si faccia sottoscrivere il proprio colossale debito pubblico dalla Cina.

Ma tra Colao e Draghi la differenza è la stessa che passa tra un gattone e una pantera. Mentre per l’attuale Premier la sua prigionia forzata a Palazzo Chigi assomiglia sempre di più al Conte di Montecristo, la festa sta per finire e non gli resta che consolarsi con le ultime nomine che possono sempre venirgli comode per il suo nuovo curriculum.

Luigi Bisignani per Il Tempo 19 aprile 2020

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