Conte mette in lockdown la democrazia

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C’è una “fase”, costi quel che costi all’Italia, dalla quale Giuseppe Conte vorrebbe non uscire mai. Quella che gli permette – in un intricato gioco di precari equilibri europei, che lo vedono azionista di minoranza dell’asse franco-tedesco, e di scontro fra le “debolezze” di Pd e 5 Stelle che alimentano la sua premiership – di restare incredibilmente ancorato a Palazzo Chigi. Di restarci nonostante non abbia azzeccato una previsione, una misura, una decisione in dieci mesi di governo giallo-fucsia.

È questo, lo status quo, l’inanità autoreferenziale cristallizzata nello “show” di villa Pamphilj, il contesto in cui l’avvocato di Voltura Appula si sta rivelando animale (politico) capace di ogni forma di adattamento: un «tirare a campare» di andreottiana scuola che – in assenza della democristianissima capacità di costruire, allo stesso tempo, una rete con i datoriali e i corpi intermedi – costringe anche l’Italia produttiva a seguire l’ormai strutturale “lockdown istituzionale”.
Un prezzo altissimo per il sistema Paese, come dimostrano le rimostranze di tutte le categorie costrette al pellegrinaggio degli Stati generali, per una Fase 3 “visibile” solo sui social governativi: lo hanno ripetuto a Conte tutti, da Confindustria e Coldiretti.

Un problema, poi, – e che problema – per la tenuta del sistema democratico: con un Parlamento esautorato, scavalcato e devitalizzato da un premier sempre più concentrato a svolgere la funzione di procuratore di sé stesso. Con il Quirinale e, tramite questo, in Europa. In nome di questa personalissima zona di conforto, senza alcun senso del pudore, il premier giallo-fucsia sta minacciando (complici sondaggi più che “interessati”) la propria discesa in campo. Lo spettro della “Lista Conte”, infatti, nelle intenzioni dei suoi demiurghi nient’altro è che la spada di Damocle sulla testa tanto del Pd quanto dei 5 Stelle – almeno così registrano i flussi – con cui il premier intende perpetuare lo stallo messicano che ha assicurato, fino ad oggi, la sua permanenza.

Lo schema è sempre quello: un Ulivo 3.0, con lui nella veste del nuovo Prodi, trasversale ai partiti e unico collante “baciato dai sondaggi” per forze politiche altrimenti a rischio di essere scalzate dall’opposizione di destra-centro. Perseguire questa strategia, è del tutto evidente, ha un costo enorme. Indebolisce immediatamente il valore contrattuale dell’Italia, perché la scelta di esautorare il Parlamento – per paura di dover fare i conti, cronaca delle scorse ore, con una maggioranza spaccata sul Mes – espone la barca di Conte alle “correnti” del mare dell’Ue. Lì dove, a differenza sua, tutti i capi di governo giungono con pieni mandati parlamentari e addirittura, come nel caso della Germania, con il perimetro della Corte costituzionale disegnato sull’interesse nazionale.

E in questo scontro fra le aspettative oniriche contiane di una “next generation” europea con la quale blindare la propria figura e l’irriducibilità reale delle burocrazie Ue che cosa accade? A finire stritolato è il piano della “concretezza”: gli investimenti nazionali e il rilancio del mercato e della domanda interna. La riprova è giunta ieri: con il nulla di fatto del Consiglio europeo e il rinvio a luglio del Recovery plan (con la tenaglia del Fondo salva Stati che si avvicina sempre più).

Tutto ciò è solo colpa di Giuseppe Conte? Non esattamente. Se è vero come è vero che Sergio Mattarella ha dato al governo il mandato per il vertice dei capi di governo Ue, l’allineamento fideistico di Quirinale e Palazzo Chigi sulle capacità terapeutiche del pacchetto (o pacco?) europeo altro non che può che determinare, come effetto collaterale, la logica reiterata del rinvio sul rinvio. Che si traduce, drammaticamente, in questo lockdown travestito da riapertura.

Antonio Rapisarda, 20 giugno 2020

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