Coronavirus 2020, fuga da Milano

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Nonostante abbia starnutito nell’interno del gomito, il signore a fianco me ne ha dette di tutti i colori. Dice che la prossima volta devo starnutire all’interno del mio. Qui in (p)resa diretta dal centro del centro di Milano, via Solferino, la situazione sembra essere sfuggita di mano: sembra Ferragosto, mancano la spiaggia e l’ombrellone ma si respira una atmosfera da tregua armata.

Si respira la paura del contagio, la paura dell’epidemia si sente la solitudine insensata di chi si protegge tra le quattro mura di una prigione, se non fossero nel centro del centro del centro di Milano. Nessuno dei fortunati inquilini – con un’istruzione medio alta a giudicare dai tripli cognomi e dai codici segreti sui citofoni- sembra confortato dalla propria agiatezza. Tutto è immobile tutto è fermo: nel centro del centro di Milano dove sino a due giorni fa si respiravano i profumi dei locali alla “barrique” oggi sembrano barricati.

Alla sera neanche “un’ombra di vino”, durante la giornata persino il cafè Radetzky, in pieno Corso Garibaldi, non vede sfilare la solita marcia di nobili e influncer poltronizzati. Dall’altra parte il mitico “Bar Jamaica”, in faccia ad ogni ordinanza, decide di non chiudere dopo le 18 perché secondo la Carlina, figlia della mitica “Lina”, “siamo stati aperti durante la guerra figurati se ci spaventa un’epidemia”.

Eppure tutto intorno si respira paura. Tutto tace. Tutto è spento. Come se avessero messo una mascherina anche al cielo. I miei vicini sono troppo vicini per sentirli: le mura sono napoleoniche con in più la sicurezza del condominio: un preservativo sociale che divide le vite in millesimi, in metri quadri, in riunioni di condominio.

Un tempo qui vivevano cantanti – come Raf e Ornella Vanoni, attori come Ernesto Calindri, per un certo tempo ho avuto la fortuna di avere come vicina dirimpettaia Charlotte di Monaco. Ora tutto è scomparso: non ci sono più spartiti, note, passi da palco teatrali e nobiliari. C’è solo la paura che si respira. Persino Milena Gabanelli, che di fronte a me, quando esce sembra correre nell’aria come un fendente, dimenticando per un attimo che deve mettere k.o. l’esistenza di qualche azienda o industria.

Qui non c’è nessuno da mettere in fuga: la paura è invisibile. È invivibile. Tutti si barricano in casa. Come se la peste non potesse superare gli spifferi delle porte, come se blindarsi dentro a doppia mandata emotiva diventasse per magia una camera sterile dalla quale guardare il mondo che vive sui social network.

Sembra di essere in qualche scena apocalittica. Non capiamo che l’Apocalissi siamo noi. Murati. Blindati. Lontani. Si sente la paura nell’aria. L’aria sembra ferma e muta. Eppure è dall’aria che nasce tutto. È dall’aria che può nascere una pandemia.

Abbiamo paura eppure non abbiamo paura degli asterischi nei nostri esami del sangue, non abbiamo paura quando i nostri figli hanno rapporti senza profilattico, non abbiamo paura di essere stati ridotti a tele-spettatori della propria vita. Non abbiamo paura. Ma abbiamo paura della paura.

O forse, come dice un portiere in livrea, del numero civico accanto: “Secondo me, qui semplicemente la gente non ha voglia di fare un cazzo”.

Metto sul mio stereo a pile, non si sa mai dovesse mancare l’energia elettrica, il 33 giri di Toto Cotugno e canto anche io che “sono un italiano vero” e rimpiango Sanremo, i giorni belli di quando nelle trasmissioni tivù c’era il pubblico, di quando un colpo di tosse non veniva ascoltato come il rimbombo di un proiettile, di quando era tutto “una rotonda sul mare”, di quando Giuseppe Conte faceva ancora l’avvocato e non il Presidente del Consiglio di un Paese che oggi deve affrontare il mondo con un Ministero degli Esteri che vendeva bibite allo Stadio di Napoli.

Mi sembra fantascienza. E forse più letale di qualsiasi virus. Perché lì, ce li abbiamo mandati noi. Come sempre. Da decenni. Alla fine come dice il portiere in livrea “perché la gente semplicemente non ha voglia di fare un cazzo”.

Gian Paolo Serino, 26 febbraio 2020

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