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Covid ed eutanasia: il paradosso politicamente corretto

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Il politicamente corretto non è un modo di sentire, una sensibilità, che accomuna individui pensanti, come può essere quella liberale o anche quella cristiana. È al contrario un insieme di idee fisse e incontestabili: una dottrina rigida e univoca, che si poggia su dogmi piuttosto che su idee. Su certi argomenti non ammette sfumature, variazioni sul tema, distinguo, discussioni (come ad esempio quelle che possono esserci fra liberali più o meno liberisti). Ogni minima deviazione dalla via ufficiale ti colloca automaticamente fra gli esseri immorali, i quali non hanno nemmeno diritto di parola. Questo genera, fra l’altro, una serie di contraddizioni logiche, cortocircuiti, non indifferenti.

Particolarmente evidenti quelli che si creano nei rapporti fra politica e vita, nella biopolitica. Eutanasia e Covid sono apparentemente due argomenti distinti, e anche distanti, eppure essi, per come vengono letti nella mentalità progressista comune, presentano sotterranei e non irrilevanti fili di connessione. E, ovviamente, anche per essi vige la solita risposta precostituita: una legge che consenta l’eutanasia e una lotta al Covid estrema e infinita, da irraggiungibile “rischio zero”, sono le risposte scritte nelle indiscutibili “tavole della legge” della correctness, anzi sono “battaglie di civiltà” e chi solo si permette di obiettare è da esecrare e allontanare dalla pubblica piazza.

Senonché, quello Stato che dovrebbe favorire o agevolare, nel primo caso, la morte, nel secondo deve fare del tutto per evitarla a costo di rendere una non vita, una vita non degna di essere vissuta, quella dei cittadini comuni. Cioè, proprio quella condizione, per una sorta di ribaltamento dialettico, che il Progressista Collettivo dice di voler evitare a chi ha scelto (e forse anche è stato persuaso a scegliere) la via del suicidio considerata per lui una “liberazione”.

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