Dio ci conservi i moderati

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Il conservatore, così come il liberale ovviamente, non può non essere moderato. Egli infatti rifugge dall’idea cardine del progetto illuministico, cioè quella di Rivoluzione. La quale altro non è che un sovvertimento radicale, e perciò immoderato, di tutto quel serbatoio di esperienza e sapienza umana, o cultura concreta, che la storia ha depositato negli usi, nei costumi e nelle tradizioni dei popoli.

La Rivoluzione per forza di cose è immoderata perché, in base a un’idea astratta e disincarnata di umanità, vuole sradicare le identità costituite e reali. Le quali ovviamente non sono identità immutabili: esse possono cambiare nella sostanza, ma solo evolvendo gradualmente, in un continuo gioco di rimandi fra vecchio e nuovo, rispettando quel passato che ci costituisce e ci dà un’anima. È questa, e non altre, la grande lezione di Edmund Burke critico della maggiore e più idealtipica delle rivoluzioni, quella francese: una lezione a cui ancora oggi un conservatore non può non far riferimento.

Il moderato non potrà quindi minimamente strizzare l’occhio, nemmeno in maniera misurata e “minima”, come sembra credere Marco Gervasoni, alle ideologie transgender e simili, che del progetto illuministico sono figlie legittime e ultime. Ideologie che si propongono non solo di sovvertire gli assetti sociali, ma addirittura la “natura umana”. La Rivoluzione, anche se a volte è stata di “destra”, nasce ed è naturalier di sinistra: essa vuole modificare il mondo, rivoltarlo come un calzino, per affermare il Progresso. Essa è violenta fisicamente e verbalmente. La violenza, diceva Karl Marx, è la “levatrice della storia”. Il processo storico, sempre secondo il pensatore di Treviri, viaggia naturalmente verso il meglio e potrebbe fare anche a meno della violenza rivoluzionaria, se non fosse che, dopo tutto, è meglio accelerare il processo e creare l’ “uomo nuovo” il prima possibile.

Pazienza, se a costo del sacrificio di molte vite umane: il fine giustifica i mezzi e per fare una buona frittata, come diceva uno che se ne intendeva, Giuseppe Stalin, bisogna per forza rompere un buon numero di uova. Quanto alla violenza verbale, essa nasce a sinistra ed è stata sempre una prerogativa di quella parte politica: chi più di Palmiro Togliatti, giusto per fare un esempio italiano, ha calunniato gli avversari ed ha diffuso quel “linguaggio dell’odio” che oggi si imputa a torto a Matteo Salvini? “Chiedere a Trump di abbassare i toni, e anche chiederlo a Salvini, vuol dire – scrive Gervasoni – non aver capito nulla della nuova politica”. E qui sembra riaffiorare quel teolologismo che credevamo una prerogativa del progressismo!

La “nuova politica” non è un destino, per questo aspetto, e il rischio è quello di trovarsi spiazzati e impreparati quando riaffiorerà quella “borghese” sobrietà e “civiltà delle buone maniere” che risponde a un bisogno (conservatore) di tranquillità connaturato allo spirito umano. D’altronde, già oggi certi stilemi e comportamenti, se fossero predominanti, renderebbero più autorevoli e credibili le posizioni degli intellettuali conservatori. Ho come l’impressione che certi toni, oltrepassato un certo limite, depotenzino una visione del mondo che dopo tutto è predominante nella società ma che spesso non trova un adeguato sbocco politico perché non porta la “guerra” fra le fila stesse del vecchio establishment.

Il rischio che spesso vedo in certi atteggiamenti della destra odierna è quella di riproporre, col segno cambiato, gli stessi vizi che per una vita abbiamo imputato alla sinistra: il fanatismo, il manicheismo, la delegittimazione morale dell’avversario, l’incapacità di distinguere cristianamente il peccato dal peccatore. E, perché no?, la maleducazione degli hippies straccioni che invadevano negli anni sessanta i decorosi campus ove si formava l’élite occidentale. Verrebbe voglia di dire: abbiamo già dato!

Corrado Ocone, 22 febbraio 2020

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