Ecco perché il governo non fa slittare le entrate tributarie in scadenza

La pianificazione del bilancio appena approvato nasconde una certa apprensione per il futuro

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Se il governo facesse slittare al 2021 50 miliardi di euro di entrate tributarie in scadenza nel 2020, il quadro programmatico descritto dal Def 2020 appena approvato evidenzierebbe sul 2020 un deficit al 13,5% invece che al 10,4% e un rapporto debito/Pil al 158,7% invece che al 155,7%, ma evidenzierebbe poi sul 2021 un deficit al 2,6% invece che al 5,7% e un rapporto debito/Pil al 152,8%, cioè sostanzialmente identico a quello del 152,7% che figura nel Documento Economico e Finanziario.

Essendo il 2020, come logico, “anno sabbatico”, ciò che veramente conta nella valutazione della sostenibilità dei nostri conti pubblici è il “punto di caduta” nel 2021, più che la “tappa intermedia” del 2020. E questo punto di caduta, in termini di debito pubblico, sarebbe all’incirca il medesimo, se anche si spostassero ingenti ammontari di scadenze fiscali dal 2020 al 2021, mentre le variazioni sul versante del deficit (peggiorativa sul 2020 e specularmente positiva sul 2021) risulterebbero di scarsa significatività, anche perché, in quanto transitorie, prive di impatto sull’indebitamento strutturale.

Rinviare miliardi di entrate tributarie al 2021 significa poter neutralizzare per tutto il 2020, per tutte le imprese e le partite Iva individuali che stanno avendo significativi cali di fatturato, quanto da esse dovuto il prossimo 30 giugno a titolo di saldo Irpef, Ires e Irap per il 2019, ma anche i versamenti relativi alle ritenute e ai contributi sui dipendenti (quelli eroicamente non avviati alla cassa integrazione) relativi ai mesi già trascorsi ed anche per I mesi prossimi fino a settembre.

Perché allora il governo si ostina pervicacemente a non fare qualcosa che darebbe una boccata di ossigeno, a molte aziende e partite Iva, assai più concreta di quella che può derivare dalla concessione di garanzie che, ormai è chiaro a tutti, sono uno strumento efficace e apprezzabile come “contorno”, ma non come “piatto forte”? La risposta non può risiedere nei numeri e nelle ragioni del quadro programmatico, come abbiamo evidenziato. La risposta va quindi ricercata altrove: il governo pensa, evidentemente, che, se sposta gli incassi fiscali di quest’anno al prossimo, potrebbe essergli più difficile incassarli, perché le imprese e le partite Iva potrebbero essere in difficoltà ancora maggiore.

Meglio allora concedere garanzie (magari i principi contabili per non mettere a indebitamento netto anche quelle “standardizzate” e spostare così la “patata bollente” ai futuri esercizi finanziari e ai futuri governi) per finanziamenti bancari che in questa prima fase verrebbero utilizzati.

A parte il fatto che questo approccio rischia in verità di amplificare quel numero di futuri dissesti di cui questo approccio del Governo evidenzia il convincimento, è abbastanza complicato commentare una condotta che nei fatti professa fiducia nel futuro, ma nelle scelte concrete di pianificazione del bilancio palesa una totale sfiducia e l’idea di incassare il prima possibile tutto quello che si può, perchè di fiducia nel futuro evidentemente non ve ne è poi molta.

Se lo Stato italiano crede davvero che le sue imprese e le sue partite IVA saranno capaci di tornare a creare quella ricchezza da cui promanano le imposte che tengono in piedi la “baracca”, deve dimostrarglielo con i fatti, non con le parole. Rinviare 50 miliardi di scadenze fiscali dal 2020 al 2021 significa credere nel futuro e rende apprezzabile anche il rilascio di 30 miliardi di garanzie pubbliche per “sciolinare” i finanziamenti bancari. Non farlo, significa non credere nel futuro e, a quel punto, anche le garanzie stanno a zero.

Enrico Zanetti, 1° maggio 2020

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