Investimenti: se aspetti l’occasione perfetta, perdi tante occasioni giuste

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Voglio iniziare questo articolo con quella che fu la seconda frase della settimana nell’ormai lontano 12 febbraio 2018.

La frase fu pronunciata da Michael Dell, fondatore dell’omonima azienda di computer e racchiude in poche parole un concetto importantissimo, specie nel campo degli investimenti.

Molto spesso mi è capitato in questi anni di parlare con persone che – magari spaventate dall’andamento dei mercati in quel momento – hanno rimandato il possibile investimento perché, a loro dire, non era il momento giusto.

L’ultima occasione di testare queste convinzioni è stato negli ultimi mesi: il 2022 come ben sappiamo è stato un anno difficile; a causa delle politiche monetarie delle banche centrali, divenute improvvisamente restrittive, sia i mercati finanziari hanno sofferto molto e l’anno si è chiuso con un risultato negativo a doppia  cifra sia per le  azioni che per le obbligazioni e tale risultato – nella sua intensità – non si verificava da moltissimi anni (dal 1969 almeno…).

Ma quand’è il momento “giusto” per investire? Ovvero, quand’è che ci sono quelle condizioni prive di rischio per cui si possono investire i propri soldi senza dover sopportare quella voltalità tipica dei mercati?.

Molti risparmiatori hanno il ricordo di una sorta di periodo d’oro per gli investimenti: quegli anni ‘70 e ‘80 in cui si poteva acquistare un Buono Postale o un Btp e aspettare tranquillamente la scadenza dopo 10 anni e vedere il proprio gruzzoletto rivalutato, una sorta di “Arcadia”, una terra idilliaca in cui vivere tranquilli, senza ansie o preoccupazioni.

Insomma, rendimenti “certi” e senza sorprese! (v. obbl. al 7% FF.SS).

Oggi invece, come risulta anche dall’ultimo Rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane reso pubblico pochi giorni fa, l’80% degli intervistati ritiene complessa e fonte di ansia la gestione delle finanze personali.

In questo viaggio a ritroso negli anni settanta e ottanta ci si dimentica però di ricordare che l’inflazione in Italia non scese sotto la doppia cifra dal 1973 al 1983 toccando il picco del 24% nel 1974!!.

Questa voglia di eliminare il “rischio” (cioè la volatilità) dagli investimenti è però incompatibile con la realtà: è come se chiedessimo di voler guidare un’automobile solo avendo la garanzia di non correre il rischio di incidenti oppure se decidessimo di coltivare un orto solo dietro la garanzia di condizioni meteorologiche favorevoli.

La volatilità – che i risparmiatori intendono come “rischio” – è una condizione implicita degli investimenti che può essere mitigata soltanto da due fattori: la diversificazione e il tempo.

Tornando al famoso “momento giusto” per investire sono andato a riprendere i giornali del Febbraio 1973 per vedere se in altri momenti storici si verificavano quelle congiunzioni astrali tali da favorire l’investimento: nella prima pagina del Corriere della Sera era riportata la visita che il Segretario di Stato americano Kissinger avrebbe fatto in Cina per parlare di guerra del Vietnam, situazione cino-russa e della “questione Formosa” (ovvero di Taiwan…); cambiando qualche termine potrebbe essere un titolo dei giorni nostri.

All’interno poi articoli sulla debolezza del dollaro (a causa dell’incremento del deficit della bilancia dei pagamenti e di quella commerciale e dopo l’abbandono della convertibilità dollaro/oro ordinato dal Presidente Nixon) e della borsa americana in seguito all’aumento dei tassi di interesse.

Quindi, alla fine, quando ci sarebbero queste famose condizioni ideali per investire? Mai e sempre mi viene da dire: mai se penso appunto di investire solo quando si può senza correre rischi, sempre se accetto che la volatilità faccia parte del processo di investimento.

Adesso una considerazione legata a quanto dicevo all’inizio: poiché la gestione dei risparmi è materia complessa cerco delle scorciatoie verso strumenti apparentemente semplici e che mi danno tranquillità.

Un esempio è dato dal recente collocamento dell’obbligazione Eni: la grande industria petrolifera italiana decide di emettere 2 miliardi di un bond con durata 5 anni e tasso di rendimento 4,3% destinata al pubblico retail (cioè non istituzionale).

Lungi da me il parlare male di questa opportunità: emittente affidabile e prestigioso, struttura semplice, durata media, rendimento buono (anche se simile a quello dei Btp di pari durata quindi non introvabile sul mercato).

Grande successo di pubblico con richieste pari a cinque volte l’offerta e obbligazione al riparto (due lotti per ciascuno); a quel punto sulla stampa specializzata escono i titoloni: “Bond, chi batte Eni”; e qui iniziano i rischi (il diavolo si nasconde nei dettagli).

Se l’unico parametro è il rendimento va tutto bene, se invece si va più in profondità si scopre che nella lista di questi titoli che battono Eni ci sono obbligazioni a tasso misto, obbligazioni subordinate, emittenti esteri eccetera.

Quale conoscenza può avere il singolo risparmiatore di queste obbligazioni?

Siamo certi che quello che apparentemente sembra sicuro lo sia realmente?

Diversi di questi titoli hanno perso circa il 30% lo scorso anno.

Perché andare a prendere singoli titoli, assumendo su di sé il rischio specifico (anche se minimo), quando posso comprare con la stessa cifra centinaia di emissioni attraverso un fondo di investimento, diversificando tra emittenti diversi e ottenendo un rendimento simile se non superiore?

Per quanto riguarda il rischio specifico (spesso sottovalutato) su uno degli inserti Plus de Il Sole 24 Ore si ricorda la vicenda dei risparmiatori italiani coinvolti nell’acquisto di obbligazioni Portugal Telecom (scoprendo di detenere un bond brasiliano poi andato in default…).

Massimiliano Maccari, 5 febbraio 2023

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