Kabul non è Danzica, se l’occidente non muore più per la libertà.

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Domenica 15 agosto del 2021. Segniamo questa data, la ritroveremo nei libri di Storia. Il giorno in cui l’occidente si è tolto di dosso il velo dell’ipocrisia e ha deciso che no, non vale più la pena morire per Danzica o per qualsiasi altra città al di fuori dei bastioni della propria fortezza Bastiani. L’occidente su quella risposta, su quel sì prima incerto e poi necessario dopo l’oscenità di Pearl Harbor, ha costruito il proprio armamentario ideologico e si è potuto raccontare a sé e agli altri per oltre ottanta anni come il miglior modello sociale ed economico al mondo dove vivere, quello a cui tutti i popoli avrebbero dovuto ispirarsi. Migliore perché moralmente superiore e capace di immani sacrifici pur di difendere la propria e l’altrui libertà. Disposto anche a sacrificare giovani vite umane, pur di difendere ovunque i diritti e i principi democratici contro le oppressioni dei dittatori sanguinari di tutte le risme.

Fu a causa della risposta che Inghilterra e USA diedero a quella domanda mal posta con il pavido intento di ricevere in cambio un liberatorio “no” dal deputato francese Marcel Déat nel 1939 e per anni erroneamente attribuita allo sprovveduto primo ministro inglese Arthur Chamberlain, che giovani ragazzi inglesi e americani morirono nel giugno del 1944 sulle spiagge della Normandia per consentire ai loro commilitoni di liberare palmo a palmo l’Europa dal giogo nazista. Grazie a quel sacrificio – la propaganda dei vincitori almeno così ci ha insegnato – fu possibile forgiare le esistenze libere e in fondo felici dei popoli europei ad ovest di quel muro di Berlino eretto in una notte d’agosto del 1961. Milioni di uomini sono morti per Danzica, milioni di uomini furono liberati dalla dittatura nazi-fasciata. Dunque fu giusto farlo. Anche se Danzica troverà la sua libertà da un’altra dittatura, quella comunista, solo alla caduta del muro nel 1989. Ben quarantaquattro anni dopo. Forse già nel 1945 oltre la retorica della liberazione dai mali delle dittature autoritarie era chiaro che ogni principio di solidarietà ha il suo limite nel principio di realtà.

Il presidente Biden lo ha detto al mondo in una sera d’agosto in modo ancora più chiaro: gli USA non combatteranno più guerre per interposto popolo. Non sacrificheranno più le vite dei loro giovani. Che non sono andati a Kabul o a Bagdad a fare la guerra per costruire nazioni nuove basate su fondamenta democratiche, come la retorica postbellica ci ha raccontato in Italia, Germania e Giappone. Ha svelato che questa parentesi di società libera e aperta che per vent’anni i giovani afgani hanno vissuto e che ora hanno perso nel volgere di una sera in mattino è solo un danno collaterale accettabile, come le migliaia di morti civili causati dai bombardamenti dei B-52 o dalle rappresaglie dei talebani.

Biden ci ha detto che la guerra la si fa solo per interessi di parte, non certo per ideali: uccidere un nemico giurato, deporre un regime o un apparato di potere geo-strategicamente pericoloso, contrastare l’espansione delle sfere di influenza di stati avversari. La guerra come mero strumento di conservazione del potere, non come mezzo di liberazione per esportare diritti, libertà, emancipazione. Un discorso finalmente realista, ha detto soddisfatto qualcuno. E la vera realtà del racconto del potere se è davvero tale non può contenere l’infingimento dell’empatia. Quello che accadrà al popolo afgano, alle donne, ai giovani, a chi ha collaborato con gli occidentali non è affar nostro. Non lo era vent’anni fa, in fondo. Non lo è ora. E poco ci deve importare del destino di persone ingenue che non sanno distinguere la propaganda dell’occupante dalla realtà.

Un boccone di verità così amaro che il mondo intero ancora non riesce a mandarlo giù. Tutte le cancellerie balbettano proteste deluse, ma nessun altro Stato oltre gli USA può permettersi di tramutare la propaganda della liberazione dei popoli in vera azione militare  prima e ricostruzione civile poi. La guerra ai talebani se la possono permettere solo gli americani che da anni non la vogliono più fare e hanno trovato finalmente un presidente che non ha paura di gestire l’indignazione mondiale per questa ritirata così frettolosa e maldestra, eppure così attesa dal popolo americano. Gli accordi di Trump a Doha con i talebani hanno segnato il futuro degli afgani. Come gli accordi di Jalta fra Roosevelt e Stalin, nell’impotenza di Churchill, segnarono quello dei cittadini di Danzica, finiti dalla parte sbagliata della cortina di ferro. Non era solidarietà, era solo potere. Allora come ora. Biden ha eseguito con fretta, realismo e senza scrupoli, perché in fondo anche per i democratici, abbiamo scoperto noi europei con sgomento, vale il principio “America first”.

Così consapevole che la scelta è unilaterale e monocratica che nel suo discorso Biden non ha sentito il dovere di fare alcun cenno agli alleati, non li ha ringraziati per il loro sforzo ventennale, per i loro morti caduti sul campo. Liquidati nel silenzio dell’irrilevanza. Gli USA da anni guardano solo al Pacifico. Ora la vecchia Europa conosce la vera distanza che separa le due sponde dell’Atlantico e può anche pesare il nuovo carico di responsabilità economiche per la gestione dei flussi migratori dall’Asia e militari per la gestione autonoma della propria difesa che questo nuovo assetto di relazioni internazionali comporterà.

Dritto e franco, al limite dell’insensibile e del cinico, Biden ha tolto il velo dell’ipocrisia alla costruzione delle relazioni diplomatiche atlantiche, ai motivi per i quali gli eserciti si mobilitano, gli Stati e le nazioni nascono, gli innocenti muoiono. Lo stesso velo che i talebani hanno già raccolto da terra e con il quale hanno di nuovo avvolto, stretto e cupo, attorno ai volti delle donne afgane.

Dismessa la retorica dell’ipocrisia, quella che permise di dire a J.F. Kennedy «Ich bin ein Berliner» o a George W. Bush «Il ritorno della dittatura nei paesi liberati sarebbe una vittoria senza precedenti per il terrorismo» o ad Barack Obama «La libertà è qualcosa che dobbiamo alimentare e diffondere nel mondo», la narrazione occidentale quale forza d’ispirazione potrà proseguire a offrire ai popoli oppressi? In Bielorussia come ad Hong Kong i movimenti democratici ora conoscono la reale differenza fra verità e propaganda occidentale. Retorica e interesse. A Istanbul, Mosca, Pechino, Budapest i nemici delle democrazie liberali sospirano di sollievo. L’empatia non ha più seguaci al potere neanche in occidente. Se per blandire le opinioni pubbliche interne stanche dalle crisi economiche le democrazie liberali sono disposte a scendere a patti persino con i talebani, certamente lasceranno tranquilli di disporre come preferisco dei loro popoli, anche gli autocrati, i dittatori e i plutocrati ben asserragliati dietro le loro cortine di ferro e i principi di autodeterminazione e non interferenza.

Eppure la perdita dell’empatia, seppur anche ammantata di retorica, da parte dei nostri leader non può portare le società democratiche a farsi cogliere dall’apatia. Possiamo avere capi di stato non più disposti ad esportare libertà ed emancipazione oltre quelle cortine di ferro, ma almeno possiamo impegnarci per consentire a chi ha gustato il sapore della libertà occidentale di poter oltrepassare quel filo spinato. Lo stesso che un tempo divideva Berlino in due e oggi separa l’inferno rappresentato da una società retrograda e violenta dalla salvezza rappresentata da una pista di aeroporto, unica porta d’accesso verso la libertà. 

 
 

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