Nazioni e demografia: perdere la guerra delle nascite è un atto di responsabilità?

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Un’Italia senza figli è un’Italia che non crede e non progetta. È un’Italia destinata lentamente a invecchiare e scomparire.”

Così ci ha ammonito il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi durante gli Stati generali della natalità svoltosi a Roma alla presenza di Papa Francesco. Dunque gli italiani devono dare più figli alla patria. Oppure guardando il problema da un’altra prospettiva la patria può essere disposta ad accogliere e rendere propri i figli altrui, visto che qui ci sono tante culle vuote e nel mondo tanti nuovi neonati?

Siamo dentro una bolla demografica. In Italia si fanno pochi figli, vero. Ma nel mondo ne nascono semplicemente troppi. Con conseguenze drammatiche. La crescita demografica è fuori controllo ed è ambientalmente ed economicamente insostenibile. Il pianeta non regge l’impatto demografico. C’è poca acqua dolce e poco cibo equamente distribuiti per garantire una vita dignitosa a tutti. Le carestie aumentano anche come conseguenza del cambiamento climatico.

L’innalzamento del livello degli oceani e l’erosione delle aree costiere, dove vive la maggioranza della popolazione mondiale, produce inevitabili migrazioni. Che si sommano a quelle prodotte dalle guerre e dalle condizioni di indigenza di enormi aree del sud del pianeta che spinge milioni di persone verso il nord ricco alla ricerca di una speranza di sopravvivenza, che spesso si infrange su di un muro fisico o di indifferenza.

In un contesto globale fare pochi figli appare dunque un atto di responsabilità. Ma gli uomini sono condizionati a riflettere per compartimenti stagni. Dentro esclusivi contesti nazionali. L’invenzione del confine giuridico ha prodotto la creazione di presunte identità culturali, religiose e politiche che definiscono e separano gli individui. Si ritiene che esse debbano essere preservate dal contatto dall’altro che contamina, annacqua, rende imperfetti. Sappiamo come la patologia ideologica della visione identitaria e nazionalistica abbia prodotto immani tragedie nel passato e condizioni ancora la difficile convivenza di popoli che si percepiscono come nemici. Oggi più semplicemente la denatalità di una singola popolazione nazionale viene considerata un fattore di rischio per la salvezza economica dello Stato nel quale essa risiede. E lo Stato, il complesso di istituzioni e poteri che ha senso di esistere solo dentro un confine tracciato sulla cartina geografica, si premunisce di difendere questa specifica identità. Semplicemente pensa ad autotutelarsi, evitando di comprendere cosa accade fuori dai propri confini.

Sul tema della natalità si è creata una faglia ideologica che si sta allargando sempre più velocemente. C’è chi pensa che per salvare il nostro Paese sia necessario favorire una politica di natalità autoctona contrastando l’introduzione dello ius soli e dello ius culturae e chi al contrario ritiene che da salvare ci sia il pianeta e il suo equilibrio, il suo futuro possibile. E che la migrazione sia un processo fisiologico che da sempre l’uomo mette in atto per salvaguardare la specie, unico fattore naturale di questa equazione, visto che la nazionalità è solo una sovrastruttura ideologica. Nessun uomo è nato con una cartina politica in mano. I confini che conosce sono solo quelli geografici e da sempre ha saputo oltrepassarli pur di trovare altrove quel benessere che aveva smarrito nel luogo dove era nato. Credere che la nostra salvezza passi per una guerra di procreazione appare dunque il tributo stanco ad un rigurgito nazionalista che ha preso a spirare come un ultimo refolo di un vento anacronistico della Storia. Perché se la gara è dentro un’ottica meramente nazionale Cina, India, Nigeria si faranno carico nel giro di tre generazioni di risolvere definitivamente la questione dal punto di vista numerico.

La questione è invece valoriale. Apertura, ridefinizione della globalizzazione come politica non meramente commerciale ed economica, ma come strumento di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione mondiale, capacità di accogliere l’altro come atto di salvezza per la specie umana. Non numeri, ma valori. Non nazionalità, ma umanità. Non una terra per i figli di una presunta nazione, ma ogni terra per tutti i figli del mondo. 

 

Antonello Barone

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