Greta “persona dell’anno”, la dittatura della banalità

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Quando le agenzie hanno battuto la notizia non mi sono stupito: Greta Thunberg è per il settimanale americano Time, uno di quelli che un tempo era citato sempre accompagnato dall’aggettivo “prestigioso”, la “persona dell’anno”, la più giovane di sempre. Poteva essere altrimenti? Sarebbe troppo facile ripetersi in questa sede e far notare, per l’ennesima volta, tutte le contraddizioni dell’ “ambientalismo ideologico” e “catastrofista” di cui l’adolescente svedese, sottratta agli studi per far da sponsor ad una causa di cui sa poco o niente considerata anche la sua giovane età, si è fatta portatrice.

Qui però vorrei pormi su un altro piano, metastorico mi sia consentito. Greta per me è molto di più di quello che è, come persona e come simbolo. Greta è come lo specchio in cui tutti noi occidentali possiamo rifletterci e chiederci cosa mai siamo diventati. Se uno storico del futuro parlasse di noi e di Greta, parlerebbe probabilmente dell’Occidente nell’ora del suo fatidico tramonto o declino. Del momento, in particolare, in cui, con solerzia e impegno degni di miglior causa, procede a tagliare le gambe alla sedia ove siamo seduti. Nessuno vuole negare che la nostra civiltà sia stata persino aggressiva verso le altre, in certi momenti, ma essa ha avuto sempre un faro ben preciso che l’ha guidata: la cultura, la scienza, la sofisticata ricerca della conoscenza. Già Socrate, il padre della cultura che ci ha fatto grandi, diceva, agli albori della nostra civiltà, che “una vita senza sapere non è degna di esser vissuta”. Il sapere, si badi bene, non l’etica.

Perché un’etica senza sapere finisce per essere moralismo spicciolo e ipocrita: copertura di “umani, troppo umani” interessi concreti e materiali, nei migliori dei casi, generatore di tragici effetti inintenzionali, nei peggiori e ahimé già sperimentati. E in Greta sembra rivivere, sotto forme più edulcorate e quindi ancora più inquietanti, tutto il peggio di ciò che l’incultura ha prodotto nella nostra storia: il semplicismo estremo e la radicalizzazione delle idee e dei valori anche più sani; l’ideologia ammantata di buone intenzioni; il naturalismo paganeggiante che fa dell’uomo una parte del cosmo e non il suo padrone; la ricerca di una perfezione e di una purezza che non possono essere delle cose umane e di questo mondo; la strumentalizzazione a fini politici e ideologici di un’età in cui si dovrebbe essere lasciati liberi di formarsi e acquistare una personalità.

In una parola: un totalitarismo, soft e post-moderno, ma pur sempre tale. Che vuole conquistare le anime prima dei corpi, escludendo chi solo osa ammettere nel discorso qualche piccolo dubbio, casomai osservando quella che è per degli storici seri dovrebbe essere quasi una banalità: l’ambiente in cui vive oggi l’umanità è il più salubre di tutta la sua storia. Ma chi coltiva più Clio? Chi legge le opere di storia? Chi sa che la Parigi, o la Londra, o la Napoli, del Sei-Settecento, erano non città ma fogne a cielo aperto, con miasmi e odori letali che ammazzavano senza pietà i più deboli?

Certo, i nostri problemi sono altri e di altra portata. E il futuro presenta, come sempre, e anche da questo punto di vista, non pochi rischi e incognite. Ma è con la tecnica e la scienza, non con la decrescita sedicente felice che l’uomo ne uscirà, se ne uscirà. Chi oserebbe contestare il fatto che la cura e la preservazione dell’ambiente sia in sé un valore? Ma l’ecologia è una cosa troppa seria per essere lasciata in mano ai piccoli, e soprattutto per essere strumentalizzata per altri fini.

Corrado Ocone, 11 dicembre 2019

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