Il Salone del libro e la censura del politicamente corretto

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Non lasciamoci ingannare dal sapore di «rosso antico» che emana dalla ridicola vicenda del Salone del Libro di Torino. Dietro la patina vintage, che pure è assai presente, si cela qualcosa di nuovo, e persino di peggiore: la dittatura del politicamente corretto. Gli interventi di Christian Raimo e di Nicola Lagioia che hanno fatto partire tutto insistevano infatti su due punti. Non tanto il fascismo, quanto il presupposto «razzismo» di alcuni editori. E la preoccupazione degli organizzatori del Salone di non «offendere».

«Offendere»: questa è la parola chiave dietro la quale si celano i nuovi censori. Siccome non si può dire che si toglie la parola a qualcuno per le proprie idee, lo si fa con la scusa che queste parole «offenderebbero», in questo caso i sopravvissuti dai campi nazisti, in altri casi gli Lgbt, in altri ancora i «migranti ». Da anni ormai negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e più recentemente in Francia (vedi la censura ad Alain Finkielkraut a Sciences Po) si contestano professori e scrittori, si impedisce loro di parlare, di tenere lezione, di pubblicare, si interdice loro la presenza sui media, li si fa cacciare dalle università in cui si insegnano, dai giornali in cui scrivono, dalle tv o dalle radio in cui dirigono programmi: anzi, diventa vietato persino invitarli come ospiti. I casi sono talmente numerosi che non serve neppure citarli. E però, come molti di noi temevano, la tabe sta arrivando anche in Italia e la stupida querelle del Salone del libro ne è un esempio.

Siccome la censura ha sempre bisogno, nella visione del nuovo Minculpolcorr (Ministero della Cultura politicamente corretta) di appoggiarsi su una «legge», ecco inventato l’escamotage: il codice etico. Vale a dire un insieme vago e confuso di precetti, talmente generici da far rientrare tutti e nessuno, e talmente banali da sembrare innocenti, che il soggetto deve firmare prima di essere assunto da un ateneo, da una impresa, da un giornale e così via. Il fulcro concettuale del codice etico è appunto questo: il soggetto si impegna a non «offendere». Il povero non può non firmarlo (non sarebbe assunto) ma una volta fatto, si trova sotto il capestro di «norme» talmente vaghe da poter essere interpretate a piacere dalla dirigenza della impresa o dell’università o del giornale prima per blandire, poi per minacciare e infine se serve per licenziare chi non rispetti il codice etico.

Ovviamente basta una segnalazione di una qualsiasi fantomatica organizzazione, oppure la lamentale persino anonima di «utenti», che si sentono «offesi» dalle parole del reprobo, per aprire il procedimento inquisitoriale che, come quello di allora (con tutto il rispetto per la Santa Inquisizione) è basato sul presupposto di colpevolezza dell’accusato. Qui si ironizza ma altrove docenti, giornalisti, manager hanno perso il posto per questo.

Da noi questa barbarie è solo all’inizio, ma sta prendendo piede. E a farsi censori e invocare le cacciate sono spesso quelle organizzazioni che dovrebbero rappresentare coloro che sono stati perseguitati per secoli: gli omosessuali. Leggiamo infatti da un articolo di Antonio Grizzuti sulla «Verità» dell’8 maggio che alcune organizzazioni Lgbt italiane vorrebbero che gli editori introducessero un «codice etico» per i libri che pubblicano, per impedire che essi stampino testi considerati «offensivi» per le minoranze. Ovviamente, l’editore che si dovesse rifiutare di utilizzare questo codice, e quindi di rendere schiave le sue scelte culturali dei diktat degli Lgbt o di altre organizzazioni, verrebbe subito additato come sospetto, se non parte integrante della temibile onda nera.

Per ora queste notizie ci fanno sorridere. Ma facevano sorridere anche anni fa negli Usa, in Inghilterra e in Francia. E ora guardate dove sono finiti.

Marco Gervasoni, 8 maggio 2019

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