Il trucco dei democratici per nascondere l’allarme immigrazione

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«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!», urlava Nanni Moretti a una basita intervistatrice, in uno dei suoi indimenticabili film: Palombella rossa. Insieme alle parole, ancora più importante, è il significato delle parole. Alterare il significato consolidato di un vocabolo o di un’espressione, può rendere più caotico il meccanismo di interpretazione del discorso e intaccarne la coerenza e la logicità. Addirittura, in casi più estremi, può arrivare a sovvertire il nostro pensiero relativo al termine in questione. Prendiamo un caso fresco di introduzione nel linguaggio politico americano: avete mai sentito parlare di “infrastrutture umane”?

In genere noi associamo la parola “infrastrutture” a strade, autostrade, ponti, porti, piste ciclabili e a qualsiasi opera inanimata, prodotto di ingegneria o di edilizia, che renda più agevole il movimento delle persone o delle merci nello spazio. Ma cosa accade quando associamo la definizione di “umano” a quella di “infrastruttura”? Si umanizza la strada, oppure si disumanizza l’uomo? In ambo i casi, il risultato è che l’interpretazione diventa ambigua e più complessa sarà anche la nostra reazione. Se è possibile sostenere – come nel recente disegno di legge Usa da 3,5 trilioni di dollari intitolato Human infrastructure bill l’equiparazione uomo-infrastruttura senza generare stupore o orrore, allora è possibile entrare in una nuova logica, proprio grazie allo slittamento semantico delle parole.

Nelle scorse settimane dei parlamentari americani hanno presentato al Congresso vari emendamenti a questo disegno di legge, voluto dall’ala radicale dei Democratici. Il provvedimento stabilisce, anche a favore degli immigrati irregolari, il diritto ad agevolazioni sociali e il riconoscimento di una sorta di amnistia generale grazie alla concessione lampo di green card, propedeutiche alla cittadinanza. Un emendamento bipartisan chiedeva di eliminare dalla platea dei beneficiari della legge tutti gli individui riconosciuti come criminali abituali o membri di gang. Ma è stato respinto con una singolare obiezione: se fosse passato, avrebbe messo in crisi il fabbisogno di “infrastrutture umane” raccomandato dai legislatori a garanzia del possente investimento economico stabilito per gli anni futuri.

Del resto, se la persona non è più un essere umano ma è una “infrastruttura”, è logico che i suoi precedenti penali, la sua compatibilità al patto sociale e alle regole dell’ordinamento civile, non saranno più criteri dirimenti alla sua permanenza. Quello che conta è che l’infrastruttura umana sia funzionale a realizzare un preciso obiettivo tecnopolitico. Per esempio, assicurare forza lavoro a basso costo per incrementare il pil nazionale o sopperire a una crisi occupazionale. Oppure, ma qui bisognerebbe essere più maliziosi, è funzionale ad assicurare una nuova base elettorale, fedele al partito che ha provveduto alla sua regolarizzazione.

Quale che sia l’obiettivo, la falsificazione semantica delle parole ottiene il risultato di depotenziare, se non addirittura cancellare, l’allarme sociale sempre collegato all’immigrazione clandestina di massa. Per altro in un territorio da sempre presidiato (e ambito) come il suolo degli Stati Uniti d’America, dove oggi l’Amministrazione Biden è pronta a regolarizzare circa 11 milioni di immigrati senza documenti e “dreamers” (gli immigrati arrivati negli Usa da minorenni al seguito di genitori clandestini).

Ma ci sono anche altre parole, entrate nel nostro lessico pandemico, che sono state fabbricate per renderle più accattivanti e farle così associare a un pensiero positivo. O per dissociarle da un significato negativo consolidato, che il loro primigenio nome gli avrebbe consegnato in sorte. Pensiamo a quel green pass che nessuno vuole chiamare, comprensibilmente, col suo vero nome: “lasciapassare sanitario” per il Covid-19. Il termine “lasciapassare” evoca la sensazione di essere sottoposti a un controllo autoritario da parte delle istituzioni; mentre il “pass”, con l’affiancamento dell’aggettivo verde che è assimilato alle encomiabili (e molto di moda) pratiche ambientaliste, richiama l’idea di possedere un accesso esclusivo (come è il pass per lo stadio o per i concerti) a un evento a cui siamo introdotti per nostro merito, e non per altrui arbitrio. Sono sfumature semantiche sottili, che però operano a livello subliminale. Trasformano un’imposizione normalmente rigettata dal corpo sociale in una norma giustificata quale innovazione propulsiva. Nel caso del green pass, propulsiva a un ritorno all’agognata “normalità”. Un ritorno molto incerto nei fatti, quanto indubitabile nella sfera percettiva, con tanto di scadenza e bollo governativi.

Ma davvero siamo tutto quello che vogliamo? Sebbene la definizione di “Genitore 1” e “Genitore 2” possano darci la sensazione di esserci liberati dal sesso (o dal genere) che rigettiamo, tale differenza psicofisica – seppur rimossa nel linguaggio burocratico – continuerà ad appartenerci nella realtà. Perché la realtà scavalca le parole e scavalca le definizioni che la falsificano. L’ideale sarebbe accettare la realtà, o arrivare a un compromesso onorevole (e ragionevole) con essa.

Cancellare orwellianamente il nostro alfabeto è sforzo inutile. Meglio sarebbe usare parole autentiche per introdurre realtà complesse. Creare una “mafia delle parole”, mettendo alcuni termini all’indice o ribaltandone il senso, è un’operazione di mero marketing linguistico, che nei regimi autoritari sfocia sempre nella manipolazione. Può generare forte consenso nel breve termine, ma i suoi effetti collaterali presenteranno il conto con l’esplosione di tutte le loro irriducibili contraddizioni.

Beatrice Nencha, 22 settembre 2021

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