In questo governo ballano tutti da soli

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Il Conte bis? È il governo del “gran ballo”. Da soli. Tra Stati generali e “piani di rinascita” di Giuseppe Conte, task force quirinalizie, Patto (di governo) per l’export targato Luigi Di Maio, “mossa del cavallo” (mezzo azzoppato) di Matteo Renzi e i tic di “Sor tentenna” alias Nicola Zingaretti, il minimo comun denominatore fra i contraenti dell’ogm giallo-fucsia è marciare divisi. Per colpire uniti? Giammai. E allora per dividersi? Ma non scherziamo.

E allora a cosa serve tutto questo? La domanda è sana e logica. La risposta un po’ meno: a governare, per caso? No. A perpetuare le rispettive rendite di posizione. Perché, pur di scongiurare l’avanzata dell’opposizione (già, le “scorie” della democrazia…), al governo s’ha da restare. Il punto è per fare cosa: qualcuno l’ha capito?

A programmarlo – in piena fase 1, quella del dominio dei tecnici e della “rimozione” del Parlamento – era stato chiamato Vittorio Colao. Da Giuseppe Conte? In verità no: si è detto, fin da subito, ispirato dal Quirinale. Meglio così? Non si è mai capito. Il risultato? Appena arrivato sul tavolo il piano Colao, “vaste programme” frutto dell’omonima task force, è già destinato a restare un dispositivo senza innesco: disconosciuto dal padre adottivo a Palazzo Chigi, subissato da critiche di ogni tipo della sua stessa maggioranza – a partire da 5 Stelle e LeU – per i contenuti “eterodossi” (scudo penale, concessioni, etc.) della proposta.

Proprio Giuseppe Conte, da parte sua, ha dato appuntamento ad alleati e avversari per riavviare i motori ingolfati della Nazione con gli Stati generali dell’economia. In Parlamento? No, nella corte neoclassica di villa Phamphili. Ma a questo “ballo” di Conte – dove “in ballo” ci sono i fondi che dovrebbero arrivare dall’Europa e i soldi veri dello scostamento di bilancio – in verità non intende partecipare nessuno. Colao sarà stento nella lista degli invitati e le opposizioni (forse eccetto Forza Italia) sono pronte a boicottare l’autoinvestitura.

Ma i guai più grossi per l’ex avvocato del popolo arrivano in casa: se a contendere la golden share sul ruolo di decisore è tornato in campo – come se fosse ancora vicepremier gialloverde – il ministro degli Esteri Di Maio e il suo “consiglio dei ministri” convocato alla Farnesina con la scusa del Patto per l’export, è il Pd con le sue anime inquiete che contesta a monte metodo, merito, stile e velleità di questa passerella.

E a che ballo partecipa a sua volta il Pd? Un passo di danza che somiglia a un pendolo: troppo debole per fare a meno di Conte, troppo forte per accettare che Conte balli troppo da solo. Una contraddizione dinamica ma permanente che ha invertito i ruoli. Zinga il segretario, tiepido anti-governista, chiamato adesso a stringere i bulloni dell’intesa, mentre l’eminenza del deep State giallo-fucsia Dario Franceschini lì a denunciare la “frattura” scatenata dal solipsismo Conte e pronto – così dicono voci di Palazzo – a togliergli lo scettro, sfruttando le necessità (“virtù”) dei due solisti: oltre a Di Maio, Matteo Renzi, del quale prenderà in prestito la mossa del cavallo (ma forse anche i “penultimatum”).

Tutto questo per fare cosa? Per una spinta di governo? No, per cristallizzare le posizioni. In un conflitto a bassa intensità che risulta qualcosa che sta in mezzo tra lo stallo messicano e la guerra di trincea. L’importante è tracciare i bollettini, vendere come conquista la riconquista della prima zolla, portare a casa la pelle. Senza un idem sentire, senza una visione, resta la tautologia: finché va un governo così si può ballare da soli. Che sia solo per ballare sulla stessa zolla non sembra essere il problema principale di questo governo.

Antonio Rapisarda, 10 giugno 2020

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