Inglesi, menzogne, massonerie: la vera storia dell’Unità d’Italia

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Denis Mack Smith, storico inglese con al suo attivo diversi libri sulla storia italiana, liquidava la nostra Unità d’Italia come «un episodio dell’imperialismo britannico». In effetti, quello albionico era l’impero marittimo più vasto di tutti i tempi. «Britannia rules all the waves», cantavano i marinai inglesi. Nel 1787 il chimico Le Blanc scoprì un metodo per la fabbricazione su scala industriale della soda basato sullo zolfo, che era anche un ingrediente fondamentale per la produzione della polvere da sparo.

E nell’Ottocento lo zolfo era di fatto un monopolio siciliano (in Sicilia l’ultima surfara fu chiusa solo negli anni Cinquanta del Novecento, ma ormai serviva solo per i fiammiferi). Il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, aveva provato a vendere il suo zolfo sul mercato, ma l’Inghilterra, con le cattive, era riuscita ad assicurarselo in esclusiva e al suo prezzo. Il re napoletano allora cercò una sponda nella Russia, a quel tempo antagonista del Regno Unito, col quale conduceva il «grande gioco» kiplinghiano in Afghanistan. Ma all’ora della guerra di Crimea (Inghilterra e Francia alleati dei musulmani turchi contro i cristiani russi), Ferdinando, minacciato dagli inglesi, restò neutrale, mentre lo scaltro Cavour mandava i bersaglieri ad affiancare questi ultimi.

La rete internazionale delle massonerie

Così, il Regno di Napoli si giocò l’unico appoggio internazionale rimastogli e rimase sotto schiaffo britannico. E gli inglesi presero a favorire le mire espansioniste dei Savoia. Un forte regno a sud della Francia e dell’impero austriaco avrebbe bilanciato le forze a favore dei britannici e fornito loro una fondamentale piattaforma nel Mediterraneo. Faceva gola anche la cancellazione del papato, inviso alle opinioni pubbliche protestanti e, soprattutto, alla rete internazionale delle massonerie. Pure alla Francia non dispiaceva il sorgere di una media potenza ostile all’impero austro-ungarico. Infatti, anche per anticipare l’Inghilterra, nel 1859 aiutò il Piemonte nella guerra contro l’Austria. Partì il cosiddetto Risorgimento, il cui lato oscuro è ribadito, con molti particolari, nel recente libro di G. Fasanella e A. Grippo: 1861,la storia del Risorgimento che non c’è sui libri (Il Giornale, Biblioteca storica, pp. 274, €. 8,50).

Gli intrighi e i traditori

Queste trame internazionali si abbatterono sulle spalle del figlio di Ferdinando, Francesco II, giovane religiosissimo di madre santa (Maria Cristina di Savoia, beatificata). Invece, suo cugino, Vittorio Emanuele II, eccolo: al Congresso di Parigi del 1856 «il trentaseienne Vittorio Emanuele (…) di certo seminò il panico fra le gentili dame –poco abituate a sentirsi chiedere, come avvenne alla povera duchessa di Persigny: “Sotto quella gonna a mongolfiera portate anche le mutande?”». Uno dei generali di Franceschiello finì linciato dai suoi stessi soldati a cui aveva dato ordine di ritirarsi davanti ai garibaldini. Tanti furono i traditori, soprattutto nella Marina (l’unica in grado di tenere testa agli inglesi nel Mediterraneo). Uno si vendette per 14mila scudi, salvo poi scoprire che i «liberatori» sull’assegno avevano scritto 14 e basta (ne morì di crepacuore).

Da allora, malversazioni, truffe, plebisciti truccati, donnine di non specchiata virtù usate come agenti d’influenza, voltafaccia, menzogne, attentati, ruberie, delitti eccellenti, morti sospette e insabbiamenti. Per non dire delle stragi e della guerra di religione, nonché il decollo della mafia e della camorra usate come quinta colonna quando non come vera e propria polizia da parte dei conquistatori. Di recente sono usciti certi libri tesi a dimostrare che non è vero, che i «lager dei Savoia» non sono mai esistiti e via contro-revisionando.

Due fatti sono tuttavia inconfutabili: grandissima parte dei soldati borbonici prigionieri si rifiutarono di passare al nuovo regime; il quale, non sapendo dove metterli -tanto erano numerosi- chiese all’Argentina uno spazio in Patagonia da adibire a lager, ma l’Argentina rifiutò. Quegli ex soldati «terroni» e «cafoni» preferirono andare ad arruolarsi con i confederati nella Guerra di Secessione, poveri sfortunati conterranei due volte sconfitti per avere combattuto per il Sud. L’altro fatto inconfutabile: i milioni di emigranti che, per la prima volta, la nuova Patria aveva ridotto alla disperazione.

Rino Cammilleri, 13 aprile 2021

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