Politiche green

La grande bufala sul rischio estinzione delle api

Secondo le associazioni ambientaliste non ci saranno più api: tra il 2011 e il 2021, il numero di alveari nel mondo si è incrementato del 26%

© frender e www.claudiovaldes.net tramite Canva.com

In tema di emergenze climatico-ambientali, ho ricevuto un interessante messaggio dal mio amico lombardo Luigi Desiderato il quale, contrariamente a chi si beve tutto ciò che veicola la propaganda green, è sempre stato sempre attento a raccogliere a valutare i numeri che si celano dietro le medesime emergenze.

L’argomento è quello del presunto rischio di estinzione che starebbe interessando la specie delle api mellifere, che è da tempo oggetto di una martellante campagna mediatica,  e il mio amico non ci va giù leggero: “Non c’è più tempo da perdere! È il termine di una famosa pubblicità di Legambiente (associazione di mentitori e di assoluta disinformazione), relativa alle api, decimate secondo loro dai mai assenti cambiamenti climatici e dai pesticidi. Ovviamente, col solito approccio cartesiano (padre del dubbio metodologico) – metodo scientifico -, non credo ad una parola di questo refrain continuo, ma vado a verificare.

Non bastandomi ciò che dice un amico che fa l’apicoltore nell’ agordino (BL) (“mai state arnie così piene da quando faccio questo mestiere”), cerco altre notizie e cosa trovo? Beh, un bel grafico nientepopodimeno che della FAO che indica inequivocabilmente che le popolazioni di api non sono per nulla in diminuzione, ma anzi sono in grandissimo aumento: tra il 2011 e il 2021, il numero di alveari nel mondo si è incrementato del 26%, passando da 81.4 a 101.6 milioni. Si trova anche sui giornali.
Ora ci si rende conto delle enormi falsità dette sui cambiamenti climatici, CO2 e quant’altro?

Ora, dopo aver letto il testo, sono rimasto particolarmente colpito dai dati riportati, cosicché ho effettuato una breve ricerca per trovarne conferma. E nel farlo mi sono imbattuto in un interessante e lungo articolo pubblicato alcuni mesi addietro su ilPost.it che apre uno sconcertante squarcio di luce nella fitta nebbia catastrofista di un certo ambientalismo. Il titolo e il sottostante sommario la dicono lunga sulle conclusioni a cui sono giunti gli autori dell’analisi: “La maggior parte delle api non è in pericolo, anzi – Anche a causa della sensibilizzazione degli ultimi anni le più diffuse sono più numerose che mai, con effetti negativi sulla biodiversità”.

In estrema sintesi, nell’articolo, oltre a trovare conferma dei dati citati dal mio amico, si descrive una situazione che non pare aver nulla a che vedere con i fattori denunciati da Greenpeace e compagnia cantante, bensì essa parrebbe determinata da un forsennato e scriteriato interventi umano stimolato proprio dalla lunga campagna in favore delle stesse api mellifere. Tant’è che viene riportato un istruttivo episodio che ha coinvolto il MoMA, uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea del mondo. Ebbene il museo ha recentemente mostrato sul suo profilo Instagram quattro arnie fatte installare sul tetto del suo edificio, definendo la cosa “come parte della missione di sostenibilità  del MoMA”.

Tuttavia, in precedenza i responsabili del prestigioso museo avevano preso contatto con il presidente degli apicoltori Newyorkesi, Andrew Cote’, il quale aveva recisamente rifiutato l’incarico. Secondo l’esperto, infatti,  la popolazione già esistente di api occidentali – uno dei nomi comuni dell’Apis mellifera, la specie di ape più diffusa al mondo – sarebbe responsabile dell’esaurimento delle limitate risorse floreali presenti in città per gli insetti impollinatori.

“L’attuale sovrappopolazione di api occidentali – prosegue l’articolo – pone tuttavia numerosi rischi per l’ambiente e, nello specifico, per migliaia di altre specie di api e di insetti impollinatori con cui le api occidentali competono per le stesse risorse. E per salvaguardare la biodiversità alcuni apicoltori hanno cominciato a suggerire ai loro clienti interessati all’installazione di arnie nelle proprie strutture – di solito sui tetti degli edifici – di scegliere altri modi di tutelare l’ambiente. Suggeriscono di installare cassette per altri insetti, per esempio, o mettere a dimora piante che incrementino la disponibilità di nettare, cioè la risorsa necessaria per gli impollinatori.”

In sostanza ci troviamo di fronte all’ennesima questione complessa che si tende a semplificare con ricette altrettanto semplicistiche le quali, essendo basate su presupposti dogmatici, rischiano seriamente di creare assai più danni rispetto a quelli che sostengono di voler evitare. La classica eterogenesi dei fini che, sempre in merito alle api, troverebbe conferma alla fine dell’articolo citato: “Secondo un rapporto del 2020 del Royal Botanic Kew Gardens, l’istituto di ricerca del più grande giardino botanico di Londra, il foraggiamento delle moltissime colonie di api presenti in città rischia di soppiantare altre specie di api. «L’apicoltura per salvare le api potrebbe in realtà avere l’effetto opposto», era scritto nel rapporto.

Ad aggravare la situazione contribuisce il fatto che le api mellifere siano diventate una sorta di trofeo vivente che le aziende desiderano mostrare, ha detto al New York Times Richard Glassborow, presidente dell’Associazione degli apicoltori di Londra.” D’altro canto, quando è l’ideologia a farla da padrona, gli interventi dell’uomo sull’economia e sull’ambiente hanno spesso creato enormi catastrofi dal nulla. In questo senso ciò che avvenne in Cina durante il “Grande balzo in avanti” avviato da Mao Zedong dovrebbe insegnarci qualcosa. Deciso a far eliminare tutti i passeri, che a suo dire distruggevano i raccolti, il dittatore comunista scatenò una insensata guerra contro i piccoli volatili. Il risultato fu drammatico: senza più il loro temibile predatore, le cavallette si riprodussero in modo incontrollato, devastando i raccolti e, di conseguenza, determinando una delle più gravi carestie della storia cinese, con decine di milioni di morti.

La storia dovrebbe essere sempre maestra di vita, soprattutto in merito alle confuse questioni ambientali che costellano il dibattito pubblico.

Claudio Romiti, 26 maggio 2024

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