La partita a scacchi tra le grandi potenze del mondo

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John Bolton, il falco militarista dell’Amministrazione Trump, vola da Washington a Gerusalemme e incontra il responsabile della sicurezza russo, Nikolai Patrushev, e il suo omologo israeliano Meir Ben Shabbat. Antefatti: a fine maggio Netanyahu, dopo aver vinto le elezioni, non riesce a formare il nuovo governo perché Avigdor Lieberman, leader di Israel Beitanu, forte partito di destra che ha base elettorale tra gli immigrati russi ed è legato a Mosca, boicotta il tentativo; la settimana scorsa Trump blocca all’ultimo minuto una rappresaglia militare contro l’Iran che aveva abbattuto un drone americano. Sono tutte mosse di una complicata partita a scacchi che ha per posta il contenimento dell’Iran (finora sostenuto dalla Russia) e il riassetto dell’area che va dalla Libia all’Afghanistan.

Un analogo articolato schema di triangolazioni si dispiega in Estremo Oriente. Kim, che di recente ha visto prima Putin (fu la Russia con Stalin a creare lo Stato nordcoreano) e poi Xi, scambia con Trump un caloroso epistolario che forse rilancia il negoziato nucleare dopo il fallimento del recente summit di Singapore. Ma lo sfondo della trattativa è il più esteso e drammatico conflitto scoppiato fra grandi potenze dopo la fine della guerra fredda: avviato dagli Stati Uniti contro la Cina nella forma di offensiva per il riequilibrio commerciale, si è evoluto come scontro per la supremazia tecnologica e ora rivela la sua natura politica di sfida per il primato mondiale, come fra l’altro mostrano da un lato la capillare penetrazione di Pechino in Eurasia e in Africa, dall’altro l’improvvisa tensione insorta a Hong Kong.

In tutto ciò si leggono almeno tre fondamentali impulsi strategici. Il primo: gli Stati Uniti si manifestano – in modo compiuto con Trump, ma in nuce già con Obama – come potenza revisionista per quanto strano possa apparire (di solito la potenza leader preferisce conservare l’ordine esistente). Ritengono pericoloso il rapporto preferenziale instaurato fino a pochi anni fa con la Cina (cui nel 2001 fu accordato l’ingresso nella Wto a condizioni di estremo favore) e sbilanciata a proprio svantaggio la relazione con l’Ue, considerata nei fatti una proiezione di potenza della Germania, che si comporta da opportunista vanitoso (poche spese e molti mugugni in materia di sicurezza delegata per l’essenziale agli americani; attenzione quasi esclusiva per le strategie commerciali finalizzate a creare surplus sempre più grandi che fanno danni al resto del mondo; crescente convergenza di interessi con la Cina; propensione a fare i primi della classe in tema di diritti e di regole giuridiche).

Secondo impulso: il revisionismo non si applica in forma di interventismo militare (vedi Bush jr. e, con meno intensità, Obama) ma sempre più fa leva su fattori economici (sanzioni) e tecno-digitali (cyber). Da qualche tempo gli americani appaiono a disagio sul terreno (Iraq, Siria, Afghanistan) e preferiscono piegare a proprio vantaggio l’architettura dei rapporti internazionali dove maggiore è il loro divario di forza (ma ciò crea scosse e squilibri di cui è difficile valutare l’incidenza a medio-lungo termine: vedi ruolo del dollaro). Trump, con qualche reminiscenza isolazionista, vuole limitare quanto più possibile l’applicazione della forza militare all’estero.

Terzo impulso: diventa cruciale la questione delle alleanze. La revisione dei rapporti con il falso amico cinese e con la Germania/Ue alleata soprattutto a parole dirada i sostegni americani nel mondo: sicuri restano le potenze anglosassoni (Five Eyes), Israele, il blocco saudita, il Giappone. Il revisionismo però ha bisogno di alleati: quello che sarebbe cruciale ovvero la Russia – anche per evitare l’isolamento nel trio delle grandi potenze mondiali: ora c’è una sorta di Kissinger 1972 alla rovescia – incontra l’ostilità di gran parte del mondo di Washington e sembra praticabile solo a piccoli passi (come si vede in Medio Oriente e forse anche a Pyongyang), in dosi omeopatiche. Ciò rende più grave l’ambiguità mercantile della Germania/Ue che s’incarta nell’incertezza strategica e indebolisce le democrazie occidentali.

Antonio Pilati, 25 giugno 2019.

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