Le teleriunioni si sono impadronite del nostro mondo

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lockdownDa giorni mi chiedo da dove nasca questa frenesia delle riunioni telematiche. Ormai non ci sono enti, scuole, club privati, istituzioni pubbliche, associazioni culturali che rinuncino ai collegamenti in televideo. È come se la pandemia avesse attivato un smania di protagonismo e di presenzialismo come reazione a un isolamento (forse eccessivo) imposto dalle circostanze. Si ha il sospetto che per qualcuno sia un surrogato di quel quarto d’ora di celebrità di cui parlava Andy Warhol. Intendiamoci, ci sono incontri e riunioni che, per il loro carattere istituzionale, non possono essere sostituiti. Penso, soprattutto, alle redazioni dei giornali, ai meeting ministeriali, alle questure, alle prefetture, alle consultazioni tra i magistrati. Anche qui, tuttavia, non riesco a capire perché la sanificazione dei locali, le distanze di sicurezza e le mascherine non siano misure sufficienti per tenere aperti gli uffici.

D’altra parte non ci si può nascondere che il lockdown ha solo continuato e ampliato “pratiche” da tempo invalse. In Europa e, in generale nei Paesi moderni, la tecnocrazia ha eroso gli spazi della burocrazia, semplificando le procedure, creando rapporti diretti tra enti e utenti, facendo risparmiare tempo agli uni e agli altri. In Italia, invece, come nell’Adelchi di Manzoni, l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. E il segreto sta nel fatto che la burocrazia è divenuta la custode dei diritti dei cittadini con le sue circolari che richiamano impegni e responsabilità, circoscrivono le libertà di quanti svolgono un ruolo pubblico, fanno pendere sul capo di tutti la spada di Damocle dell’ “abuso di ufficio”. Un Leviatano amministrativo che arruola un numero crescente di tecnici del pc per avvolgere l’intero paese nelle sue spire. Grazie al Coronavirus ci ritroviamo tutti nella valle di Giosafat del controllo informatico.

L’ideale ormai sembra essere quello di dare urbi et orbi i computer che consentono ai cittadini del terzo millennio di collegarsi con funzionari, amici, colleghi, soci, parenti e congiunti in modo da poter vedere sullo schermo le loro facce ed essere visti per i più disparati motivi. Ormai ciò che sono i medici e virologi per i malati, sono gli operatori telematici per le persone sane: i regolatori dei nostri flussi vitali. Tutto questo se ha ancora un senso per i rapporti più diversi tra i cittadini e le istituzioni diventa meno comprensibile nel caso di attività (ricreative e culturali in senso lato) che potrebbero benissimo venir sospese o comunque continuate online sul modello Facebook ma anche grazie al semplice invio di mail che da tempo consentono la simultanea comunicazione con centinaia di corrispondenti.

Il sospetto è che ciò non accade per almeno tre ragioni. La prima è che molte associazioni (pubbliche e private) hanno trovato il modo di non spendere più un soldo per riunioni e convegni: niente più viaggi, alberghi, pranzi, cene, gettoni di presenza (sempre più rari, peraltro). I saperi ormai si comunicano dallo schermo del pc e se il volto di qualche convegnista non piace, pazienza. Lui vede noi, noi vediamo lui, e mentre parla non ci si può più distrarre, come ai bei tempi sussurrando qualcosa all’orecchio di chi ci sta accanto. La teleriunione imprigiona i volti e i discorsi e si risolve in una sostanziale mancanza di libertà giacché fisicamente non si hanno più vicini, si è prigionieri della propria postazione e lo sguardo non può più “rianimarsi” contemplando la sala, le decorazioni, i quadri, i mobili: diventiamo scolaretti indisciplinati costretti ad essere attenti.

La seconda ragione è più preoccupante. Non vorrei fare il Marshall McLuhan di Zagarolo ma ho il sospetto che l’acquisita padronanza di un complicato strumento tecnico, che ci consente di comunicare con gli altri standocene in poltrona, finisca, inconsciamente, per dare un’impressione di controllo del mondo attorno a noi, sicché ciò che viene comunicato passa in secondo piano. Se siamo in grado di fare certe cose, nulla ci può spaventare: il Covid-19 ci costringe a stare a casa e noi, grazie ai collegamenti telematici, siamo in grado di sfidare le proibizioni della natura. È la vittoria della scienza e della tecnica, dello spirito sulla materia: la pandemia rimane lì ma grazie al pc non siamo tenuti a metterci a lutto. Sennonché non è affatto consolante la capacità di aggirare i mali del mondo senza poterli debellare in virtù di un’etica pubblica che vuole che la “normalità” e la “felicità” non debbano conoscere interruzioni né essere turbate dalle ‘ quarantene’ e dalle ‘ pause di riflessione’.

Ma è la terza ragione che nutre la mia angoscia: il rifiuto dell’etica del destino, della sottomissione all’ineluttabile, dell’accettazione di un dolore da vivere con dignità. C’è qualcosa, a ben riflettere, in tutto questo che ricorda la rimozione della morte e la ybris dell’uomo moderno, che intende cancellare tutto ciò che spezza la routine quotidiana. Il peccato originale è la rassegnazione passiva al freddo invernale e al caldo estivo e l’uomo si libera del mito umiliante della caduta di Adamo e diventa homo homini deus giocando a scacchi con la Natura, come il cavaliere Antonius Block con la Morte nel capolavoro di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo.

Dietro questo esibito ottimismo, divenuto quasi un dovere civico, però, c’è il fantasma del suo contrario: un pessimismo antropologico ossessionato dal principio “chi si ferma è perduto!”. Esso nasce dalla oscura consapevolezza della precarietà ovvero dal timore che, nelle nostre società leggere e superficiali, nessun sodalizio (culturale, religioso, artistico) sia così radicato ed esistenzialmente rilevante da poter reggere a due/ tre mesi di inattività.

Pertanto, il timore di non riuscire a tenerne in vita la rete di relazioni sociali attraverso la normale corrispondenza email, porta i soci a darsi appuntamento nella piazza telematica: eccoci di nuovo qui tutti insieme, come se non sia successo niente, non ci siamo “in carne ed ossa” ma con le nostre figure, con le nostre voci, con la nostra volontà di non “arrenderci”… Forse rifiutando tutto questo diamo un calcio al futuro, ma accettandolo diamo un calcio alla serietà della vita.

Dino Cofrancesco, 30 maggio 2020

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