Le tre lezioni della “guerra” sui sottomarini

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Non esitano a parlare di “tradimento” i giornali d’oltralpe. E a consumarlo sarebbe stato per prima l’Australia che avrebbe rigettato un accordo strategico con la Francia del 2016 che doveva rifornire il paese oceanico di 12 sottomarini nucleari per stipulare, in nome di un’antica alleanza fra Paesi anglofoni, un accordo militare e strategico con Stati Uniti e Gran Bretagna. La reazione francese, come è noto, non si è lasciata attendere: ritiro degli ambasciatori a Canberra e Washington e coinvolgimento dell’Unione Europea che però non ha dimostrato forse tutto il calore che i transalpini si aspettavano. E d’altronde, cosa poteva aspettarsi la Francia che, forte della sua idea di grandeur, aveva deciso di giocare da sola la partita, in barba ad ogni europeismo di facciata?

Una vicenda che insegna parecchie cose.

1. Prima di tutto l’ambiguità di uno dei due Stati più importanti dell’Unione, del tutto pari a quella dell’altro. Francia e Germania insistono infatti per la priorità delle istituzioni comuni sugli interessi nazionali ma solo quando conviene loro, militarmente o commercialmente. E quell’europeismo che vorrebbero imporre agli altri spesso non vale per loro. Come può nascere un’Europa comune e solidale su queste basi?

2. Il secondo insegnamento concerne il Regno Unito: non solo con la Brexit non è sprofondato nell’isolamento e nell’irrilevanza geo-politica, come i soloni di casa nostra (e non solo) erano convinti che avvenisse, ma ha riacquistato una agilità e una mobilità a tutto campo che, grazie alla sua naturale tensione verso il mare aperto, che è elemento culturale prima che geografico, non lo farà mai essere quello che pure è: una piccola isola confinata ai margini settentrionali del mondo. Non occorreva scomodare più di tanto Carl Schmitt per intuirlo e capirlo!

3. Il terzo insegnamento è che nella guerra più o meno fredda alla Cina non si può essere ambigui. L’accordo Aukus, in sostanza, significa proprio questo: Australia e America non si fidano né dell’Europa che, per ripetere la sferzante vecchia battuta di Henry Kissinger, continua a non avere un unico numero di telefono a cui chiamare; né della Germania, alla ricerca per sé e per l’Europa di un “terza via” che non comprometta i rapporti commerciali con Pechino ma anzi li intensifichi; né della Francia, che è arrivata a dire con il suo presidente che la Nato è un vecchio arnese che non serve più a nulla.

Quarto elemento da considerare: l’America è oggi sicuramente divisa politicamente e culturalmente come non mai, ma sugli elementi di fondo della sua politica di sicurezza, oltre le apparenze, c’è una continuità di fondo fra tutti i presidenti: su certe cose non si scherza! L’Europa, in effetti, si era illusa che con Biden alla Casa Bianca fosse tutta iniziata tutta un’altra storia rispetto a Trump, e che cioè il gigante americano, in nome di un ritrovato asse democratico contro i “sovranismi”, avrebbe continuato a fare quello che ha fatto per tutta la prima guerra fredda, quella con l’Unione Sovietica: rispettarla. Ove per “rispetto” gli europei hanno sempre inteso: protezione totale a costo zero. Sia in termini economici, sia in impegni di guerra. In sostanza, la botte piena e la moglie ubriaca!

Viste in questa prospettiva, le frasi che ascoltiamo in questi giorni a Bruxelles (“ora vogliamo autonomia strategica”, “faremo da soli”, ecc.) non sono altro che futile retorica. Velleitarie e ipocrite quanto altre mai.

Corrado Ocone, 23 settembre 2021

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