L’Europa ne inventa un’altra: multare le fake news

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La cancel culture sbarca in Ue: in arrivo la stretta sui contenuti che circolano in rete. Quando si parla di fake news e “lotta alla disinformazione”, i grandi media mainstream dimenticano di porsi una domanda fondamentale: chi stabilisce se quel contenuto può essere ritenuto politicamente accettabile o meno? Con quali criteri e mezzi sarebbe possibile creare un campo di notizie “politicamente corretto”, per distinguerlo da quello “politicamente scorretto”? È lo stesso interrogativo che un osservatore dell’attualità dovrebbe avanzare alle istituzioni europee.

Pochi giorni fa, infatti, l’Ue ha approvato l’ultima stretta sui contenuti “disinformativi” che circolano sui social network, obbligando le Big Tech a sorvegliare i contenuti online e prendere di mira i discorsi d’odio. In caso contrario, le autorità regolatorie potranno punire i trasgressori con multe da capogiro, fino al 6% del fatturato globale.

Le grandi Tech, quindi, saranno obbligate a rivelare alle autorità l’insieme delle strategie che vorranno mettere in campo per combattere la propaganda disinformativa. In sostanza, le libertà di azione e di espressione dei gruppi tecnologici saranno subordinate al lasciapassare di Bruxelles, la quale potrà decidere per miliardi di utenti cosa può essere legittimo esprimere o meno.

C’è però un punto fondamentale da prendere in considerazione. Chi controlla la correttezza di chi? E ancora: chi controlla non ha un orientamento politico? Su quali standard le autorità fondano la decisione di oscurare un articolo, un post o un commento sui social? È evidente come ci si stia muovendo in un contesto puramente soggettivo. Ed è sotto gli occhi di tutti come le strette anti-fake news si traducano loro stesse in una decisione politica, che seguono un certo schieramento, che eliminano contenuti utilizzando come parametro la propria morale.

Trump bannato

Esempio eclatante fu la censura che colpì l’ex presidente Trump, durante i quattro anni di Casa Bianca. Il 7 gennaio 2021, subito dopo l’assalto al Campidoglio, giunse alle Big Tech la richiesta dell’ex first lady, Michelle Obama, di “bannare permanentemente quest’uomo” (il Tycoon, ovviamente).

In realtà, già prima dei fattacci dell’Epifania, il ceo di Twitter, Jac Dorsey, in un’audizione al Congresso, spiegò che, una volta lasciato l’incarico, Trump non avrebbe più goduto “dell’occhio di riguardo” concesso ai capi di Stato. E mentre ci si preoccupava di censurare un presidente votato da più di 74 milioni di statunitensi; pochi mesi dopo, la stessa piattaforma lasciava mano libera a Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, con un account di oltre 200mila followers.

Insomma, è evidente che non si tratta di chiusure degli account che violano le policies o i requisiti stabiliti dalle disposizioni di legge, ma di atti sulla base di valutazioni politicamente orientate. E questa censura potrà ricadere inesorabilmente anche nelle stanze di Bruxelles.

Grande Fratello

L’istituzione di cabine di regia e di celebri task force, come nel governo Conte II, contro la disinformazione, sono gli esempi che mettono in pratica la teorizzazione orwelliana di un Grande Fratello, di un meccanismo politico burocratico, in cui la mano di pochi determina la libertà di molti, in cui la dialettica lascia spazio alla propaganda ed al coro unico, in cui a singole autorità è riservata la custodia della libertà di espressione.

Pare ormai che la bussola di riferimento non sia più quella della libertà, importata direttamente dagli Stati Uniti, bensì quella dell’autoritarismo, del controllo schizofrenico, della parola limitata, che più assomiglia al sistema comunista cinese. È il Partito Comunista a decidere, in modo insindacabile, dove si collocano verità e falsità. E non è neanche un caso che i social network locali siano strettamente controllati dal governo, anche se molti cinesi trovavano, fino a poco tempo fa, il modo di aggirare la censura accedendo alla rete di Hong Kong.

Ecco, quella spirale di limitazione, mascherata sotto il mantra della “tutela pubblica”, sta sbarcando anche nel mondo occidentale. La censura nei confronti dei tennisti russi a Wimbledon, oppure dei letterati e musicisti di Mosca, rappresenta solamente il sintomo di una malattia già in stato avanzato, quasi in fase terminale.

“Diversity officer”

Nel Regno Unito, per esempio, è in voga ormai da anni la pratica dei “safe spaces”, ovvero spazi concessi ad associazioni universitarie, col potere di escludere opinioni diverse dalle loro, tenendo fisicamente fuori libri, giornali, interlocutori “sgraditi”. Oppure la figura del “diversity officer”, un funzionario che, seguendo lezioni e conversazioni, ha il compito di individuare espressioni offensive e di segnalarle in privato al “colpevole”, prospettandogli il rischio di essere sanzionato se l’episodio dovesse ripetersi.

L’Unione Europea si è travestita da “diversity officer”. Il procedimento, nato per non discriminare, sta creando una religione ancor più intollerante e dogmatica, portando a soppiantare le idee non omologate, “politicamente scorrette”, senza affrontarle col principale mezzo difensivo, capace di distinguere verità e falsità: il dibattito.

Chi si assurge a detentore di verità assolute, dogmi o principi intoccabili sarà il primo ad attivarsi per ritagliare il campo del free speech. Non è un caso che qualsiasi sistema autoritario trovi il proprio fondamento su un monopolio informativo, su una negazione della circolazione delle idee, su un rifiuto a priori di tutto ciò che rientra nell’ombrello della libertà.

Non rischiamo di cadere nello stesso errore. Sarebbe illusorio non pensare che questo tipo di censura non possa ricadere, in futuro, nella vita “reale” di tutti i giorni. Il confine è sottile.

Matteo Milanesi, 25 aprile 2022

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