Lo schiaffo gesuita di Bergoglio

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Diavolo di un Bergoglio, e non è una freddura all’inglese. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. È a lui che va la palma della comunicazione politica di inizio anno. La scena dello strattonamento e poi dello schiaffo sulle mani della fedele, trasformato da qualche quotidiano italiano più clericale del Papa in «schiaffetto», quasi una paterna carezza, come quelle che raccomandava Giovanni XXIII, si è diffusa in poche ore in tutto il mondo. A dimostrazione che quando parliamo del Papa, ormai, parliamo di un leader globale, che non si rivolge solo all’Italia e all’Europa; anzi, nel caso di Bergoglio, si tratta di platee da lui considerate minori e quasi pronte a essere cedute.

È Bergoglio il vero leader globale, l’unico che possa tenergli testa è Trump. Ha quindi ben visto Repubblica quando lo ha eletto ad anti-Salvini, anche se per candidarlo alla guida del governo ci sarebbero vari problemi, non ultimo il fatto che è capo di uno Stato straniero. Come se si potessero candidare qui da noi Trump o BoJo. Con quella mossa ha perfino diviso noi del blocco liberal nazional conservatore, quelli chiamati sovranisti che, pur venendo da storie e da biografie diversissime, e pur avendo in comune sempre una certa vocazione anarcoide, in genere siamo compatti come una falange romana. E invece qui Maglie ha preso una posizione, Capezzone un’altra, Giubilei un’altra (cito loro, in quanto amici), e io un’altra ancora.

Se è cosi è perché in effetti il gesto, come direbbe il sociologo conservatore, Michel Maffesoli, rappresenta un caso di éclatement, cioè di entrata in rapporto con il mondo «cosi come è». E poiché il conservatore non vuole cambiare il mondo, deve finire per fare i conti, realista come è, con il mondo come è diventato, anche se non gli piace per niente. Il mondo del gesto bergogliano è esattamente quello della post cristianità il cui correlato è una chiesa globale e globalista che ha abbandonato il senso del sacro. Da qui il venire meno della gerarchia, alla cui assenza il gesto compiuto da Bergoglio rimanda. Vi immaginate se a qualcuno sarebbe venuto in mente di toccare Pio XII e Paolo VI, che tra la folla ci andavano, mica ricoperti da un’armatura? Oppure il caso di San Giovanni Paolo II, uomo delle folle ma il cui carisma rendeva difficilmente pensabile un atto come quello compiuto dalla sfortunata fedele asiatica: al limite gli si sparava, ma appunto si cerca di uccidere solo ciò che è sacro.

Senza più sacro, niente più senso della distanza e niente più gerarchia. E certo trattare la pellegrina come ha fatto Bergoglio non aiuta certo a ricomporre questo senso della distanza. In fondo la ragazza non ha fatto che essere coerente seguace della chiesa che Bergoglio sta proponendo. Del resto, se la cosa fosse stata voluta da diabolici o gesuitici spin doctor, non sarebbe riuscita meglio. Bergoglio al centro della scena mediatica globale, Bergoglio che agisce come uno di noi, «come è umano lei», diceva Paolo Villaggio-Fantozzi al Gran Comm. ecc. «Uno vale uno» per  dirla con le parole di un altro comico. Con questo incidente Bergoglio ha ribadito la visione della sua Chiesa; non dico che l’abbia fatto di proposito, ma insomma, è pur sempre un gesuita…

Dove sta la politicità però? Sta nel fatto che questo venir meno della distanza e questa assenza di aura sacrale, che sono stati propri della politica in Occidente da sempre, e che per molto tempo avevano resistito anche «con i costumi democratici», per dirla con Tocqueville, sono ormai trionfanti. Vince, soprattutto nel campo conservatore, quello che si fa toccare dalle folle. Non a caso, il video parodistico di Salvini che mima la scena papale con la sua fidanzata Francesca, sia pure con altro finale, è genio puro: non so se idea del leader leghista, di Luca Morisi, o di Francesca stessa chissà.

Fichte parlava di «epoca della compiuta peccaminosità», noi, con Jean Baudrillard e con Maffesoli, potremmo chiamarla  «l’epoca della compiuta postmodernità», in cui tutte le barriere sono saltate. Ci può piacere o meno: ma da conservatori dobbiamo accettarlo e farci i conti. I «nostri» leader l’hanno capito: meglio così e bando ai moralismi, quelli li lasciamo agli Zingaretti o ai finti garantisti come Marattin, con il suo «restituisci i 49 milioni» a commento della performance salviniana.

Marco Gervasoni, 2 gennaio 2020

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