Lo studio dimostra: la flat tax non favorisce gli autonomi

La Cgia di Mestre sbugiarda i sindacati (e Repubblica): vantaggi solo a 60-65mila euro

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Chi legge questo nostro giornale sa che la storiella sulla “flat tax che discrimina i lavoratori dipendenti” è una bufala talmente grossa che solo Repubblica poteva cavalcarla. Ce lo ha spiegato bene Enrico Zanetti e lo conferma adesso anche uno studio della Cgia di Mestre. Che mette a tacere definitivamente le lamentale dei sindacati sulla tassa piatta a 85mila euro voluta dal governo Meloni.

Secondo la Cgia non è vero che la flat tax avvantaggia artigiani e piccole imprese rispetto a chi, dipendente, paga le tasse direttamente in busta paga. Nonostante l’innalzamento a 85mila euro della fascia cui si può accedere al regime forfettario e all’aliquota del 15%, gli autonomi continuano a pagare più tasse dei lavoratori dipendenti. I vantaggi arrivano solo nella fascia di reddito tra i 60 e i 65 mila euro. “In tutti le altre comparazioni, vale a dire tra i 10 mila di reddito fino a 55 mila euro – si legge nella ricerca – gli autonomi pagano sempre molto più di impiegati e operai, con punte tra i 3.760 e i 3.875 euro all’anno nella fascia di reddito tra i 25 e i 30 mila euro, prelievo aggiuntivo che sale attorno ai 4.200 euro con redditi tra i 15 e i 20 mila euro. Se, poi, il confronto lo facciamo tra i dipendenti e i lavoratori autonomi che non applicano la flat tax, il maggior prelievo in capo a questi ultimi aumenta a dismisura, con punte, tra i 60 e i 65 mila euro di reddito, di oltre 6 mila euro all’anno”.

Piccoli vantaggi si hanno solo nella fascia tra i 60 e i 65mila euro. “In questo caso – riconosce la Cgia – gli autonomi con flat tax subiranno nel 2023 un prelievo fiscale annuo inferiore ai dipendenti di 640 euro. Se la comparazione avviene con un reddito da 65 mila, il vantaggio sale a 1.285 euro”. Tuttavia, il vantaggio si ferma qui, visto che per alzare l’asticella la partita iva dovrebbe avere un fatturato o un volume di affari che supera la soglia degli 85mila euro.

“Chi in queste ultime settimane ha gridato allo scandalo, pertanto, dovrebbe ravvedersi”, scrive la Cgia. Non solo perché gli autonomi continuano a pagare più tasse dei dipendenti. Ma anche perché la riforma Meloni riguarda circa 140mila partite iva, solo il 4,2% di quelli che oggi non applicano la tassa piatta e non costa allo Stato chissà quanto (404 milioni di euro). Inoltre, bisogna ricordare che i “vantaggi” alla soglia dei 65mila euro di reddito magari ci saranno, ma la partita iva non ha alcuna “garanzia” di arrivare ogni anno a quella soglia. Per fatturare 85mila bisogna impegnarsi, lottare sul mercato, rischiare, non ammalarsi troppo spesso. Vedasi il caso Covid: nei due anni di pandemia le partite iva sono diminuiti, i dipendenti cresciuti. Insomma: essere autonomi comporta una scommessa rischiosa, che il dipendente non affronta.

Senza contare tutti i “bonus” di cui un autonomo non può godere. “I lavoratori sono più fragili degli altri – dice la Cgia – Hanno pochissime tutele: rispetto ai lavoratori dipendenti, ad esempio, non dispongono di malattia, ferie, permessi, Tfr e tredicesime/quattordicesime. In caso di difficoltà momentanea non dispongono né di cassa integrazione né, in caso di perdita del posto di lavoro, di NASPI2 . È stato certificato che il rischio povertà nelle famiglie dove il reddito principale è riconducibile a un autonomo è superiore a quelle dei dipendenti”. Serve altro?

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