Papà Borgonzoni tra le Sardine: che tristezza!

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Sul Foglio, divenuto l’organo ufficiale dei nuovi “responsabili” del Pd, nell’intervista rilasciata a Marianna Rizzini, Giambattista Borgonzoni «architetto con esperienza nel restauro di castelli e nelle ristrutturazioni di edifici  industriali e commerciali, figlio del noto pittore realista-espressionista Aldo e padre di Lucia, candidata leghista alla guida della regione contro il governatore Pd uscente e ricandidato Stefano Bonaccini» ci fa sapere che per lui sono «meglio le sardine del partito di mia figlia». Musica divina per le orecchie di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, il cui Salvini hate da fatto politico e da disturbo della personalità è diventato un caso umano (che attiva la solidarietà persino di un cattivista come lo scrivente).

Papà Borgonzoni si è talmente innamorato di Mattia Santori, «cofondatore e volto mediatico delle Sardine» da regalargli sei opere del padre pittore (se quelle opere valessero un capitale, in un paese normale i congiunti potrebbero anche ottenere l’interdizione del donatore). Fatti suoi, comunque. Stupisce, invece, il fascino esercitato su intellettuali (raffinati?) e sui loro giornali di nicchia da furbacchioni rampanti come Santori. Gente che, non senza ragione, condanna il nazionalismo, il sovranismo, la demagogia, l’ostentazione strumentale di simboli religiosi, viene ammaliata dai “terribili semplificatori” ovvero dalle «autoproclamate élite che lo storico svizzero Jacob Burckhardt–nelle sue Lettere— immaginava intente a distruggere le nostre società esibendo ricette astratte per risolvere problemi complessi».

Slogan come le banalità proclamate dalle sardine sull’ambiente, sulla partecipazione, sull’onestà dei governanti cosa sono se non  “terribili semplificazioni”? In realtà, per l’intellighenzia nostrana tali possono dirsi soltanto quelle che vengono da destra – e hanno a che fare col racconto comunitario -non quelle che vengono da sinistra e che esprimono valori universali. È il solito doppiopesismo ideologico, col suo slittamento dal piano descrittivo a quello valutativo, per cui alla base di una definizione non c’è lo specchio del mondo ma il giudizio sul mondo.

La sortita di Giambattista Borgonzoni – contro «il bolso ex ministro dell’Interno, con quel fraseggio angosciante e ricorrente» – e la sua denuncia del vento sovranista mondiale che soffia dalla Gran Bretagna della Brexit alla America di Donald Trump» (e poteva mai mancare il tycoon, la cui vittoria probabile si deve solo al fatto che in giro, sulle due rive dell’Atlantico, ci sono troppi pochi Bergonzoni e Ferrara, per non parlare delle cerase?) sarebbero rimaste note solo a un gruppo ristretto di amici, estimatori, colleghi architetti, compagni del Pd e frequentatori di Piazza Grande se non fosse stato per la figlia. E qui veniamo a un vecchio costume di casa. Se un congiunto, per qualsiasi ragione, ha fatto conoscere un cognome, al di là delle mura familiari e degli amici del bar dello Sport o dei circoli politicamente impegnati, sarebbe un peccato non approfittarne.

È il quarto d’ora di celebrità al quale ognuno ha diritto – per citare il profeta della pop-art Andy Warhol – ma che, purtroppo, non arriva a tutti (i teorici dei ‘diritti sociali’ dovrebbero tenerne conto e arricchire i loro elenchi continuamente in progress). Se uno si chiama Mattia Pincopallo ed è il figlio di Gianroberto Pincopallo, condannato all’ergastolo per i numerosi, efferati, stupri da lui commessi ai danni di innocue (e non più avvenenti) novantenni, perché rinunciare ad essere intervistato alla TV o sui giornali? Non sarebbe interessante, per il grande pubblico, sapere cos’ha da dire Mattia, sulla crisi della famiglia e sulla piaga del femminicidio? Sicuramente il figlio non sarebbe tenero col padre ma va da sé che è solo grazie al padre che i media lo cercano. Prima era un Carneade qualsiasi ora è diventato un simbolo. Nella fattispecie un simbolo di come si possa essere diversi dai genitori. O dai figli, nel caso di Giambattista Borgonzoni. Il Foglio ha tracciato il solco, altri, «con miglior voci», potrebbero seguirlo, assicurando a un eventuale libro di memorie familiari del Pd-sardinista un discreto numero di lettori.

Ma allora cosa doveva fare il buon papà della «donna capace» giacché «nella Lega deve difendere l’indifendibile»? Nell’Italia che fu, sarebbe rimasto lontano dalle luci della ribalta, lasciando ai giornali il lecito gossip sulle sue simpatie politiche diverse da quelle della reproba Lucia. Nell’Italia di oggi, ha pensato bene di cavalcare l’onda della popolarità improvvisamente associata al suo cognome. Al posto suo, mi augurerei in Emilia il trionfo della Lega giacché se la figlia diventasse governatore dell’Emilia ogni sua controversa decisione garantirebbe a Giamba nuove interviste e visibilità mediatica ma se Lucia dovesse perdere e tornare nell’ombra, analoga sorte toccherebbe anche a lui.

In questo caso, potrebbe sempre, è vero, alzare il tiro della provocazione, sicuro dell’ospitalità di Cerasa.,che venderebbe l’anima a  Mephisto e non certo per Margarete ma per la promessa di poter trascinare con sé Salvini all’Inferno. Potrebbe, ad esemepio, rilasciare una intervista dal titolo “Perché all’antisemitismo di Salvini preferisco l’antisionismo di Khamenei“. Sarebbe, tuttavia, un fuoco di paglia. Nel nostro paese, l’indignazione contro un politico “malvagio e corrotto” dura finché il politico rimane in sella. Quando esce di scena o conserva un ruolo di secondo piano, le urla e le piogge di monetine si fermano. Come sa Il Fatto Quotidiano che, con la fine della stagione berlusconiana, ha quasi dimezzato le vendite.

Dino Cofrancesco, 22 gennaio 2020

Atlantico Quotidiano

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