Paracetamolo e vigile attesa: le linee guida cambiano, le colpe di Speranza restano

Dall’altro ieri sono state aggiornate le linee guida, ma rimangono forti ombre sulla gestione covid di Speranza e del Cts. Ecco perché

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di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Il Tar del Lazio, con sentenza n. 419 del 15 gennaio 2022, aveva annullato la circolare ministeriale del 26 aprile 2021 nella parte in cui questa prescriveva ai medici l’utilizzo del protocollo “tachipirina e vigile attesa”, ritenendo che i medici debbano essere lasciati liberi di prescrivere la terapia secondo il principio di “scienza e coscienza”, assumendosene la relativa responsabilità.

Quattro giorni più tardi, il 19 gennaio, la terza sezione del Consiglio di Stato ha sospeso con effetto immediato la decisione del Tar, salvando gli effetti della Circolare ministeriale. L’atto con cui il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar è stato emanato in via cautelare, mentre ieri – 9 febbraio – il Consiglio di Stato si è pronunciato nel merito annullando la sentenza del Tar, motivando la decisione sulla base del fatto che la Circolare ministeriale contiene “mere raccomandazioni e non prescrizioni cogenti e si collocano, sul piano giuridico, a livello di semplici indicazioni orientative, per i medici di medicina generale, in quanto parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello internazionale”.

La sentenza del Consiglio di Stato apre però un’autostrada su molteplici valutazioni da fare.

La prima è se sia sensato rivolgersi al Tar per queste cose. Se il Tar, come nel caso di specie, interviene per una volta contro il governo, c’è comunque il Consiglio di stato che gli dà comunque ragione. Tanta fatica per niente. Anzi il risultato è alla fine controproducente. Eppure, nonostante tutto, noi vogliamo insistere sul punto, sollevando alcuni problemi, che presentano, a nostro avviso, risvolti di natura persino penale. Quello che ci interessa capire, in buona sostanza, è se il comportamento del ministro Speranza e dei suoi collaboratori del Cts abbiano o meno creato danni tanto nella gestione dell’emergenza pandemica quanto nell’efficacia delle cure domiciliari. Andiamo per gradi.

Bergamo, primi di marzo 2020. Le terapie intensive vanno presto in affanno e i medici sono costretti a decidere chi deve vivere e chi morire. E molti, troppi muoiono. Ma su che basi scientifiche vengono curati quei primi malati? In realtà all’inizio si va a tentoni, tanto è vero che il Comitato tecnico scientifico istituito con decreto del presidente del consiglio dei ministri n. 371 del 5 febbraio 2020 – coordinato all’epoca dal dott. Agostino Miozzo – è scettico in questa prima fase sull’utilizzo degli anti-infiammatori, mentre qualche mese più tardi nelle cure domiciliari contro il Covid-19 il protocollo adottato prende il nome di uso comune “tachipirina e vigile attesa”, cioè proprio un semplice anti-infiammatorio.

Ancora il 16 marzo 2020 Repubblica, l’organo di propaganda del governo, scriveva: “Coronavirus, non prendete antinfiammatori per proteggervi”. Ma è proprio il Comitato tecnico scientifico di allora a fare i danni più grossi. Dal verbale del 28/2/2020 emerge che il Cts si oppose alla chiusura di altre zone rispetto agli undici Comuni già in zona rossa: “Non sono necessarie altre misure restrittive”, eppure il virus circolava ad un ritmo tale che dopo dieci giorni Conte dovrà chiudere tutto il Paese in lockdown.

Ancora il 4 marzo 2020, pochi giorni prima che la situazione precipitasse, con riferimento alla scuola il Cts scriveva: “le scelte di chiusura dovrebbero essere proporzionali al contagio […], non esistono dati che ne indichino la inconfutabile utilità”, salvo poi – dopo qualche giorno – chiudere tutte le scuole per l’intera durata dell’anno scolastico, mettendo milioni di famiglie davanti al fatto compiuto. Il 13 marzo, con l’intero Paese in lockdown totale dal giorno precedente, il Cts affermava “non vi è evidenza per raccomandare indiscriminatamente ai lavoratori di indossare le mascherine. Anzi. Al contrario è stringentemente raccomandato solo per gli operatori sanitari e per chi ha sintomi respiratori”. Visto che oggi, dopo due anni, le mascherine sono obbligatorie ovunque (addirittura quelle ffp2), con una variante meno pericolosa rispetto all’infezione del 2020, le indicazioni del Cts sarebbero da sottoporre al vaglio in sede giurisdizionale penale. Delle due l’una: o aveva ragione il dottor Miozzo e allora tutto quello che è stato fatto dopo è sbagliato o aveva torto e allora dovrebbe renderne conto.

Ma torniamo a Speranza. Con la Circolare ministeriale del 30 novembre 2020 n. 0024970, solo parzialmente modificata con successiva circolare del 26 aprile 2021, le principali indicazioni sono: vigile attesa, paracetamolo, non utilizzare routinariamente corticosteroidi, non utilizzare eparina, non utilizzare antibiotici e non utilizzare idrossiclorochina. Insomma, “curare” il meno possibile. Si tratta certo di “indicazioni”, non di obblighi (la dicitura esatta è “si forniscono le seguenti indicazioni di gestione clinica”), ma in campo medico la violazione di un’indicazione ministeriale potrebbe comportare l’avvio di un procedimento disciplinare, quantomeno da parte dell’ordine dei medici che valuta le contro-indicazioni e l’opportunità della scelta eventualmente contraria all’indicazione ministeriale. E dunque molti medici, sia di famiglia sia soprattutto ospedalieri (i più esposti di tutti), si sono sentiti costretti a rispettare le indicazioni del ministro Speranza.

La Circolare ministeriale del 26 aprile 2021 (n. 0008676), rispetto a quella precedente del 30 novembre, si è soltanto limitata ad aggiungere altri farmaci unitamente al paracetamolo (tachipirina), come i Fans (farmaci antinfiammatori non steroidei) in caso di dolori articolari o muscolari. Anche il protocollo Aifa nel setting domiciliare (datato 20 dicembre 2020) non si discosta molto dalle Circolari ministeriali, limitando l’uso delle eparine e dei corticosteroidi solo in specifiche condizioni, escludendo gli antibiotici (tra i farmaci non raccomandati). Il tutto sempre a titolo di “indicazioni”.

Da ultimo, finalmente, il 10 febbraio 2022, il dicastero ha aggiornato le linee guida, con indicazioni specifiche per i bambini e le donne in gravidanza, alla luce della “sopravvenuta disponibilità di nuovi farmaci antivirali e anticorpi monoclonali”. Peccato che i monoclonali esistano già da quando, a ottobre 2020, Aifa snobbò l’offerta di scorte di quei farmaci da parte della multinazionale Eli Lilly a scopi di sperimentazione. E che, con gli antivirali, si fosse già curato, ad esempio, Donald Trump, sempre nell’autunno del 2020. In realtà, come dimostra l’esistenza di protocolli terapeutici affidabilissimi (basti pensare a quello sviluppato dal professor Giuseppe Remuzzi), ben prima del 10 febbraio 2022 sarebbe stato possibile ampliare le scarne indicazioni ministeriali.

Ma soprattutto, la verità che viene nascosta dalla decisione del Consiglio di Stato è che finora ai medici è stata di fatto vietata – sotto il ricatto di essere cacciati dall’ordine professionale, quindi un obbligo mascherato – la possibilità di agire secondo “scienza e coscienza”. Un medico che volesse curare la Covid con un antibiotico, tanto per fare un esempio, si assume una responsabilità non da poco al cospetto delle autorità competenti gerarchicamente superiori (struttura ospedaliera, ordine dei medici, ministero della salute).

Ma c’è anche un’altra domanda da porsi: quanti decessi si sarebbero potuti evitare se i medici avessero avuto sin da subito indicazioni precise dal Ministero su come curare i malati di Covid? L’eparina, ad esempio, è un farmaco utilizzato dai medici ospedalieri a partire dalla terza settimana di marzo 2020 ed ha salvato molte vite, per quale motivo non ne viene autorizzato l’utilizzo anche per le cure domiciliari? E che dire degli antibiotici? Alcuni salvano la vita, ma il Ministro e i suoi tecnici si sono ben guardati dal consigliarne la somministrazione, anzi l’ hanno sconsigliata.

Continuare sulla strada di “paracetamolo e vigile attesa” ha portato parecchie persone al ricovero in terapia intensiva, e in tanti non sono più tornati. Se sin dall’inizio si fossero date indicazioni più aperte i medici di famiglia si sarebbero sentiti liberi di prescrivere quantomeno gli antibiotici (alcuni funzionano con notevoli risultati) e ci sarebbero stati meno morti. Ci sono studi, inoltre, che dimostrano come la tachipirina in caso di Covid sia addirittura dannosa, dal momento che aumenta il consumo di glutatione da parte dell’organismo, compromettendone la risposta antiossidante e antinfiammatoria. Se questi studi fossero confermati risulterebbe evidente che il Ministro ha indicato e continua ad indicare l’uso di un farmaco non solo sbagliato, ma addirittura dannoso per quei malati.

Per quale motivo il Ministro non ha indicato, per le cure domiciliari, l’uso quantomeno degli antibiotici? Per paura che alcuni di questi funzionassero a tal punto da rendere irragionevole l’adozione dell’obbligo vaccinale? Non tocca certo a noi rispondere, ma crediamo che un giudice dovrebbe far luce sull’operato del Ministro, nonostante la decisione a lui favorevole del Consiglio di Stato.

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