Recovery fund: chi ha vinto davvero è la Merkel

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La Germania, come è noto, è stata all’origine delle due guerre che hanno funestato il continente europeo nel secolo scorso e che ha entrambe perso. Guerre che, per la loro estensione e virulenza, non si è tardato a definire, con una certa approssimazione, “mondiali”. È come se il continente europeo ove è conficcata, andasse stretto a questa tipica potenza di “terra”, cioè senza sbocchi e prospezione sul mare, ma con una capacità tecnologica, commerciale, industriale forse senza pari. Dopo la seconda delle guerre suddette, la Germania è stata smilitarizzata e divisa dalle potenze vincitrici, ma ha potuto avviare, nella sua parte occidentale, sotto l’influenza degli Stati Uniti e sotto l’ombrello della Nato, un virtuoso percorso di pace, democrazia, benessere economico. Fu in questo contesto che essa entrò nel processo di graduale costruzione di una Comunità economica, prima, e di una Unione politica poi, con gli altri Stati continentali e a lei vicini.

L’idea era, nelle élite di qua e di là dell’Oceano, di integrare la Germania in un consesso continentale per evitare che l’Europa diventasse tedesca come si era rischiato in precedenza. Quando, con la caduta dell’Unione Sovietica, si ripropose la possibilità di riunire la Germania, leader come Helmut Kohl e Francois Mitterand concepirono il disegno di ancorare il ricongiungimento dei tedeschi ad un quadro europeo che prevedeva una moneta unica, in economia, e la leadership militare e di difesa di Francia e Gran Bretagna, in ambito politico. Come sia andata a finire la storia è sotto gli occhi di tutti, almeno di chi vuol vedere: con l’uscita della Gran Bretagna e con l’accorta leadership politica di Angela Merkel, la Germania è ora sul punto di conquistare, anzi forse lo ha già fatto, quel predominio incontrastato a livello europeo che le due guerre mondiali non erano riuscite a darle nel secolo scorso.

Certo, un predominio conquistato con la forza dell’economia e della politica e non con quella delle armi, ma palesemente con lo stesso e agognato risultato finale: un’Europa a trazione o guida tedesca e non una Germania europea. L’apoteosi del “metodo Merkel” è stato sicuramente il vertice di Bruxelles ove la cancelliera è riuscita a far passare un Recovery fund in cui non un euro di quanto sarà erogato agli altri Paesi, che sia sotto forma di sussidi o di prestiti, non sarà in sostanza deciso dalla Germania. Anche chi si opporrà dovrà comunque alla fine sottostare alla volontà dello Stato più forte, per come è stato concepito il cosiddetto “freno d’emergenza”.

A Bruxelles abbiamo visto la Merkel dare le carte, dominare il gioco su tutti i tavoli, imporre le proprie regole. Il tutto con un pragmatismo e una lucidità, nonché uno stile sobrio, che non può generare invidia in chi appartiene ad un Paese come il nostro in cui il presidente del Consiglio si è presentato al vertice in una posizione di debolezza estrema, ha velleitariamente provato a fare la voce grossa senza poterselo permettere, ha ottenuto solo sulla carta tanti soldi che però saranno erogati (quando e se lo saranno) alle condizioni suddette e quindi con il massimo della “condizionalità” (quella che abbiamo invece rifiutato di avere con il Mes), e si è enfaticamente venduto il risultato come fosse una vittoria e non per quello che è: una sconfitta, e anche un’umiliazione, per uno Stato che era qualche decennio fa nel nucleo dei più industrializzati del mondo e che è  ora retrocesso nel novero di quelli poveri e sussidiati.

La stessa opposizione, rientrata a suon di contropartite, dei paesi cosiddetti “frugali”, che ha tenuto banco nella capitale belga, senza indulgere ovviamente a retropensieri, è di fatto servita come sponda alla Merkel per imporci le sue condizioni. Che poi, non ci abbia fatto affossare, come fu fatto a suo tempo con la Grecia,  non è stato certo segno di buon animo e benevolenza: un nostro fallimento avrebbe comportato infatti quello di tutta la costruzione europea, che i tedeschi non possono permettersi sia per questioni relative al loro mercato interno sia per l’interrelazione che esiste fra il loro sistema bancario e industriale e il nostro (seppure in un orizzonte ormai di compiuta subordinazione). Non dimentichiamo che l’operazione portata a termine da Angela Merkel nei confronti del nostro Paese, le cui condizioni di malato cronico si sono acutizzate con la pandemia, erano iniziate già all’indomani delle elezioni europee con il tentativo riuscito di dividere i politici italiani e di creare un cordone sanitario attorno a Matteo Salvini e ai “sovranisti” per metterli fuori gioco come di fatto è avvenuto.

In verità, le classi dirigenti italiane la sovranità del nostro Paese l’avevano venduta da decenni, sin dai tempi dei Trattati fondanti l’Unione, vuoi per inconsapevolezza, ingenuità e incompetenza vuoi per interesse o ideologia. I tanto demonizzati “sovranisti” a ben vedere suggeriscono di seguire fino in fondo il nostro interesse nazionale, proprio come fa la Germania. Allo stato dei fatti però i rapporti di forza si sono così palesemente resi a noi sfavorevoli che mettersi frontalmente contro i voleri della nuova padrona di Europa non sarebbe certo una buona scelta. Per le opposizioni è necessario cominciare a studiare una strategia di “lotta nel sistema” e non “contro il sistema”, come ha efficacemente suggerito in un ispirato articolo il professor Orsina. Ma anche ammettere che il nemico è in noi e non è la Merkel. Alla fine del suo percorso politico, forse, oltre ad apprezzarne le qualità politiche, ahimé non presenti da tempo nella nostra classe dirigente, della cancelliera dovremmo cominciare ad ammettere onestamente che ha dimostrato coi fatti di essere la prima e la più capace sovranista europea.

Corrado Ocone, 26 luglio 2020

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