La battaglia dei referendum

Referendum giustizia, perché dire basta al carcere preventivo

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di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Il 12 giugno si avvicina e il dibattito in merito ai referendum sulla giustizia stenta ancora a partire. Non se ne parla a sufficienza. Sarà anche vero che gli italiani hanno altre preoccupazioni: il lavoro, le bollette e l’affitto da pagare, e sullo sfondo la paura degli effetti della guerra e di nuove pandemie. Eppure, questo è l’ultimo treno per cercare di cambiare la giustizia e sarebbe un peccato perderlo.

Ci siamo occupati di questo referendum con diversi nostri articoli e speciali, da ultimo con un libretto dal titolo “Referendum Giustizia: tutte le ragioni per votare Sì”, sostenendo in modo convinto la necessità di votare Sì a tutti e cinque i quesiti referendari. In un precedente post abbiamo analizzato il quesito più controverso, quello sulla “Legge Severino”, oggi vogliamo porre l’attenzione su quello che riguarda i “limiti agli abusi della custodia cautelare”. Prima però vogliamo fare due passi indietro…

Il tintinnio delle manette

Era il 31 dicembre 1997 quando l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, denunciò a reti unificate nel suo discorso di fine anno l’uso sconsiderato della custodia cautelare in carcere: “Il tintinnare le manette in faccia a uno che viene interrogato da qualche collaboratore, questo è un sistema abietto, perché è di offesa. Anche l’imputato di imputazioni peggiori ha diritto al rispetto”. Scalfaro si riferiva alla stagione di Mani Pulite, quando era solito, quasi quotidiano, sbattere gli indagati in cella perché rivelassero ciò che gli inquirenti cercavano. Tanto per rendere l’idea dell’uso distorto che è stato fatto della misura cautelare carceraria, in merito alla stagione di Tangentopoli Francesco Saverio Borrelli ebbe modo di dire: “Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Lo scandalo, in realtà, sono le idee inquisitorie che si nascondono dietro queste parole.

Il supplizio di Enzo Tortora

Il caso più clamoroso, tuttavia, è più risalente nel tempo. Giugno 1983, viene arrestato Enzo Tortora, il noto presentatore televisivo accusato da alcuni collaboratori di giustizia di trafficare droga per conto della Nuova Camorra Organizzata (NCO) di Raffaele Cutolo. Gli inquirenti di Napoli si fidarono delle rivelazioni di uno psicopatico, tale Giovanni Pandico (detto ‘o pazzo), che leggendo sull’agendina di un’amica del camorrista Giuseppe Puca il nome di un tale Enzo Tortona (con la n), rivelò si trattasse di Enzo Tortora, “quello del pappagallo”. I giudici istruttori ritennero credibile una tale ricostruzione, avallata da altri pentiti del calibro di ‘o animale (Pasquale Barra) e cha-cha-cha (Gianni Melluso). Fatto sta che Tortora, completamente estraneo ai fatti, passerà in totale 271 giorni in carcere, per poi essere condannato a 10 anni di reclusione in primo grado per associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. L’assoluzione con formula piena arriva in appello solo nel 1986, confermata in Cassazione un anno più tardi. Pm, giudici istruttori e giudici del tribunale di Napoli, nonostante i gravi errori commessi, furono tutti promossi.

Cosa prevede il quesito referendario?

L’oggetto del referendum è chiaro. Si tratta di limitare gli abusi della custodia cautelare. Vediamo come funziona. Quando sussiste almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di procedura penale (pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato), e solo quando il pericolo è concreto ed attuale, il Pm può chiedere al Gip l’applicazione di una misura cautelare nei confronti della persona sottoposta ad indagini. La difesa non può nulla, se non presentare (dopo che la misura è stata eseguita) istanza al tribunale del riesame oppure depositare allo stesso Gip istanze di revoca o di sostituzione della misura (in quest’ultimo caso solo se sussistono elementi nuovi ai sensi dell’art. 299 c.p.p.). Il quesito referendario intende abrogare l’art. 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale (d.p.r. n. 447/1988), limitatamente alla parte in cui consente l’applicazione della misura cautelare per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e, per la custodia cautelare in carcere, per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti.

Cosa accade se vincono i Sì?

In pratica, nel caso in cui i cittadini decidessero di abrogare la norma oggetto del quesito referendario, le misure cautelari sarebbero applicabili soltanto nei casi stabiliti dal primo periodo della lettera c) dell’art. 274, comma I c.p.p., vale a dire solo per “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. Il quesito mira, dunque, a limitare in modo decisivo il ricorso alle misure cautelari, in primis la custodia cautelare in carcere che resterebbe in vigore solo per quei reati particolarmente gravi che giustificano un’attenzione sensibilmente alta da parte dello Stato.

Non è vero che assassini, rapinatori o stupratori non finirebbero più in galera: per questi reati, e per quelli di mafia o di sovversione dell’ordine democratico, la custodia cautelare in carcere resterebbe una misura ancora applicabile. In tutti gli altri casi, se il popolo votasse per l’abrogazione, si finirebbe in galera o in detenzione domiciliare solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, cancellando definitivamente la barbarie dell’anticipazione della pena. Il quesito mira anche ad abrogare il ricorso alle misure cautelari in ordine al reato di finanziamento illecito dei partiti, con trent’anni di ritardo rispetto a quanto accaduto nella stagione 1992-93. Ci aveva già provato il Governo Amato col “decreto-legge Conso” nel 1993 con cui depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti, ma Scalfaro allora si rifiutò di firmarlo sotto una forte pressione mediatica e della Procura di Milano. Solo qualche anno dopo di rese conto dell’errore che aveva fatto.

In un Paese civile chi sbaglia paga, ma solo dopo un regolare processo che conduca – esperiti tutti i gradi di giudizio previsti dalla legge – a sentenza definitiva.

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