Report choc dell’Iss: tutti i dubbi sui vaccini

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Sono una ventina di smilze paginette in formato Pdf (25 considerando le fonti e gli stacchi imposti dalla realizzazione grafica), riassunti nel burocratichese titolo “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione anti-COVID-19 Gruppo di Lavoro ISS Prevenzione e Controllo delle Infezioni”; più sinteticamente, è il Rapporto ISS Covid 19 n. 4 risalente allo scorso 13 marzo, elaborato a cura dell’Istituto Superiore di Sanità, a cur a di non meno di 25 studiosi: quanti geni lavorano solo per noi, come nella Rai di Renato Zero. Viva l’ISS, dunque, che ci fa crescere sani e però parte subito, sembrerebbe (e speriamo che lo sia: diversamente, la faccenda aggiungerebbe odore a già cospicue maleolenze) con una topica deliziosa: “Al febbraio 2020, sono state segnalate tre varianti che destano particolare preoccupazione, la già menzionata VOC 202012/01 identificata per la prima volta nel Regno Unito, la 501Y. V2 (denominata anche B.1.351) identificata in Sudafrica e la P1 con origine in Brasile”. Febbraio 2020? quando ancora si sapeva poco e niente, almeno ufficialmente, del ceppo originario? Interdetti, c’inoltriamo nel rapporto, strutturato secondo uno schema pedagogico di domanda e risposta, dunque ad uso delle masse, o forse per meglio usare le masse.

Varianti e misure di prevenzione

Primo quesito: “La circolazione delle varianti richiede una modifica delle misure di prevenzione e protezione non farmacologiche (distanziamento fisico, mascherine, igiene delle mani) in ambito comunitario e assistenziale?”. Si risponde: “No, non è indicato modificare le misure di prevenzione e protezione basate sul distanziamento fisico, sull’uso delle mascherine e sull’igiene delle mani; al contrario, si ritiene necessaria una applicazione estremamente attenta e rigorosa di queste misure”. Tradotto: le “misure di prevenzione” debbono restare e se mai venire ulteriormente irrobustite. Compreso il lockdown? La risposta non è data, ma è facilmente intuibile. Quindi si scende nei dettagli, si fa per dire: “(…) Anche se non vi sono attualmente evidenze scientifiche della necessità di un isolamento in stanza singola di pazienti con infezioni da varianti virali, tuttavia, in presenza di diagnosi sospetta o certa di infezione da varianti 501Y.V2 o P1 di SARS-CoV-2, o di nuove VOC non ancora significativamente diffuse nella popolazione, si suggerisce, laddove possibile, di adottare l’isolamento in stanza singola o strategie di cohorting di pazienti infetti da una stessa variante. (…) Coerentemente con il documento del 18 e del 20 gennaio 2021 dell’Haut Conseil de la Santé Publique (HCSP) francese, 9 non è possibile identificare clinicamente tutti i pazienti che sono infetti / portatori delle nuove varianti virali e, pertanto, le misure di prevenzione e cura devono rimanere invariate. (…)”.

Oscuro ma decifrabile, lo studio prosegue all’insegna dell’incertezza: “Relativamente al distanziamento fisico, non vi sono evidenze scientifiche che dimostrino la necessità di un incremento della distanza di sicurezza a seguito della comparsa delle nuove varianti virali; tuttavia, si ritiene che un metro rimanga la distanza minima da adottare e che sarebbe opportuno aumentare il distanziamento fisico fino a due metri (…)”. È la linea fin qui seguita: siccome non ne sappiamo ancora abbastanza, allora tutto fermo, tutto chiuso e distanziato.

Con i vaccini l’incubo finirà?

Dopodiché, il documento si sofferma sui sieri finora approvati: quelli che dovrebbero garantire una veloce e definitiva fuoruscita dall’allucinante segregazione cui siamo sottoposti ormai da 13 mesi. Davvero? “Gli studi clinici condotti finora hanno permesso di dimostrare l’efficacia dei vaccini nella prevenzione delle forme clinicamente manifeste di COVID-19, anche se la protezione, come per molti altri vaccini, non è del 100%. Inoltre, non è ancora noto quanto i vaccini proteggano le persone vaccinate anche dall’acquisizione dell’infezione”.

Perfetto: siamo ancora agli studi clinici, che tuttavia non forniscono certezze. “È possibile, infatti, che la vaccinazione non protegga altrettanto bene nei confronti della malattia asintomatica (infezione) e che, quindi, i soggetti vaccinati possano ancora acquisire SARS-CoV-2, non presentare sintomi e trasmettere l’infezione ad altri soggetti (…). Studi preliminari in vitro condotti sulla risposta immunologica (umorale e cellulare) evocata dai due vaccini a mRNA, BioNtech/Pfizer e Moderna, hanno evidenziato una ridotta attività neutralizzante da parte del siero dei soggetti vaccinati nei confronti della variante sud-africana e della variante brasiliana (…) Non è ancora noto quale sia l’impatto delle varianti per la protezione nei confronti delle forme di malattia severa, con ospedalizzazione ed esito letale. La Who afferma che lo studio ha un campione troppo limitato per una valutazione sulla malattia severa ma che evidenze indirette mostrano una protezione contro questa forma; alla luce di ciò, la Who raccomanda attualmente l’uso del vaccino AZD1222 di AstraZeneca secondo la già stabilita roadmap nazionale di definizione delle priorità, anche se sono presenti varianti in un Paese. Per nessuno dei vaccini in utilizzo è nota al momento la durata della protezione ottenuta con la vaccinazione. Gli studi che attualmente sono in corso forniranno in futuro utili informazioni a tale riguardo”.

Siamo al trionfo del dubbio, alla sagra dell’incertezza, alla fiera dell’eventualità; in altre parole: vi invitiamo caldamente a vaccinarvi, ma non garantiamo niente visto che siamo agli “studi preliminari” che “non forniscono certezze”. Con il che, si potrebbe anche parlare di sperimentazione umana su scala mondiale.

La guida dell’ISS, difatti, prosegue con un’altra questione: “I lavoratori vaccinati, inclusi gli operatori sanitari, devono mantenere l’uso dei Dpi e dei dispositivi medici, l’igiene delle mani, il distanziamento fisico e le altre precauzioni sul luogo di lavoro?”. Si risponde: “Tutti i lavoratori, inclusi gli operatori sanitari, devono continuare a utilizzare rigorosamente i Dpi, i dispositivi medici prescritti, l’igiene delle mani, il distanziamento fisico e le altre precauzioni secondo la valutazione del rischio, indipendentemente dallo stato di vaccinazione e aderire a eventuali programmi di screening dell’infezione (…) Si ribadisce che nessun vaccino anti-COVID-19 conferisce un livello di protezione del 100%, la durata della protezione vaccinale non è ancora stata stabilita, la risposta protettiva al vaccino può variare da individuo a individuo e, al momento, non è noto se i vaccini impediscano completamente la trasmissione di SARS-CoV-2 (infezioni asintomatiche). Quindi, seppur diminuito, non è possibile al momento escludere un rischio di contagio anche in coloro che sono stati vaccinati (…) In conclusione, ogni lavoratore, inclusi gli operatori sanitari, anche se ha completato il ciclo vaccinale (…) dovrà continuare a mantenere le stesse misure di prevenzione, protezione e precauzione valide per i soggetti non vaccinati, in particolare osservare il distanziamento fisico (laddove possibile), indossare un’appropriata protezione respiratoria, igienizzarsi o lavarsi le mani secondo procedure consolidate”. Lecito, a questo punto, domandarsi cosa cambia in concreto dopo la vaccinazione di massa.

La successiva problematica, se possibile, peggiora ulteriormente le cose: “Se una persona vaccinata con una o due dosi viene identificata come contatto stretto di un caso positivo, bisogna adottare le misure previste per i contatti stretti?”. Si risponde: “Se una persona viene in contatto stretto con un caso positivo per SARS-CoV-2, secondo le definizioni previste dalle Circolari del Ministero della Salute, questa deve essere considerata un contatto stretto anche se vaccinata, e devono, pertanto, essere adottate tutte le disposizioni prescritte dalle Autorità sanitarie (…) La vaccinazione anti-COVID-19 è efficace nella prevenzione della malattia sintomatica, ma la protezione non raggiunge mai il 100%. Inoltre, non è ancora noto se le persone vaccinate possano comunque acquisire l’infezione da SARS-CoV-2 ed eventualmente trasmetterla ad altri soggetti. Infine, è verosimile che alcune VOC possano eludere la risposta immunitaria evocata dalla vaccinazione, e, quindi, infettare i soggetti vaccinati. (…) Pertanto, in base alle informazioni attualmente disponibili, una persona, anche se vaccinata anti-COVID-19, dopo un’esposizione definibile ad alto rischio e considerata “contatto stretto” di un caso COVID-19, deve adottare le stesse indicazioni preventive valide per una persona non sottoposta a vaccinazione. A prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione, in generale, la persona vaccinata considerata “contatto stretto” deve osservare, purché sempre asintomatica, un periodo di quarantena di 10 giorni dall’ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo effettuato in decima giornata o di 14 giorni dall’ultima esposizione al caso, come da indicazioni contenute nella Circolare n. 32850 del 12/10/2020”.

I fallimenti vaccinali

Dulcis in fundo, viene affrontato l’aspetto dei cosiddetti fallimenti vaccinali; ma, ancora una volta, le indicazioni del documento a cura dell’ISS sono a dir poco vaghe, in una forma cautelativa che tutto fa tranne rassicurare: “Quali casi sono da considerarsi fallimenti vaccinali?”. Risposta: “Anche i soggetti vaccinati, seppur con rischio ridotto, possono andare incontro a infezione da SARS-CoV-2 poiché nessun vaccino è efficace al 100% e la risposta immunitaria alla vaccinazione può variare da soggetto a soggetto. Inoltre, la durata della protezione non è stata ancora definita. (…) Va specificato che i vaccini anti-COVID-19 attualmente disponibili, come riportato nelle rispettive schede tecniche, sono autorizzati per la prevenzione di malattia COVID-19 sintomatica e non per la prevenzione dell’infezione asintomatica (e di conseguenza la possibilità di avere un risultato positivo al tampone molecolare): pertanto, la definizione di fallimento vaccinale deve essere ancora standardizzata per la malattia asintomatica alla luce degli studi autorizzativi mirati alla sola malattia COVID-19 in forma sintomatica. Oltre a quanto riportato, deve essere considerato il fatto che, poiché lo sviluppo dei vaccini anti-COVID19 è stato molto rapido, non sono ancora state acquisite informazioni sulla durata a lungo termine della protezione successiva alla vaccinazione. (…) Una persona può infettarsi nei giorni immediatamente successivi alla vaccinazione, in quanto l’organismo necessita di un tempo minimo per sviluppare una completa risposta immunitaria protettiva (…) mentre per il vaccino AstraZeneca la protezione inizia da circa 3 settimane dopo la somministrazione della prima dose. Per tutti i vaccini al momento in uso in Italia è necessaria la somministrazione della seconda dose di vaccino al fine di ottenere una protezione ottimale”. Qui c’è almeno un passaggio inquietante, dove si specifica che “lo sviluppo dei vaccini è stato molto rapido, di conseguenza non sono state raggiunte informazioni certe circa l’effettiva protezione. È la conferma di quanto obiettano non i negazionisti, ma gli scettici del vaccino: come può un siero elaborato in troppo breve tempo lasciare tranquilli?

Il rapporto non fornisce certezze, anzi, in forma retorica, si chiede: “I programmi di screening dell’infezione degli operatori sanitari, inclusi quelli delle strutture residenziali socioassistenziali e sociosanitarie, devono essere modificati dopo l’introduzione della vaccinazione?”. E si risponde: “Alla luce delle conoscenze acquisite, non si ritiene, al momento, di dovere modificare i programmi di screening dell’infezione da SARS-CoV-2 in atto per gli operatori sanitari mantenendo inalterata la frequenza dei test. (…) Poiché, al momento, è impossibile correlare in modo preciso il titolo di anticorpi con il livello di protezione, la presenza di anticorpi all’esame sierologico non esime la persona dall’uso dei DPI e dispositivi medici, nonché dal seguire tutte le precauzioni standard e specifiche per impedire la trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2”. Alla luce delle conoscenze acquisite… Al momento è impossibile correlare… Tutte conferme di una sostanziale, e allarmante, condizione di incertezza nel mondo scientifico.

C’è spazio per un ultimo aspetto: “I contatti stretti di un caso di COVID-19 quando possono essere vaccinati?”. Risposta: “I contatti stretti di COVID-19 dovrebbero terminare la quarantena di 10-14 giorni secondo quanto previsto dalle normative ministeriali vigenti prima di potere essere sottoposti a vaccinazione. (…) Di conseguenza, le persone esposte ad un caso noto di COVID-19, identificate come contatti stretti, non devono possono (sic!) recarsi presso i centri vaccinali (anche per non rischiare di esporre a SARS-CoV-2 le persone nei mezzi pubblici, il personale sanitario deputato alle vaccinazioni, le altre persone presenti nel centro vaccinale, ecc.), ma devono terminare la quarantena di 10-14 giorni, secondo quanto previsto dalle normative ministeriali vigenti, prima di potere essere vaccinate”.

Chi ha avuto il Covid deve vaccinarsi?

Il meglio, come di prassi, arriva in fondo, e affronta la più urgente delle questioni: “Chi ha avuto il COVID-19 deve comunque vaccinarsi? È a rischio di avere delle reazioni avverse più frequenti o gravi al vaccino?”. Risposta: “La vaccinazione anti-COVID-19 si è dimostrata sicura anche in soggetti con precedente infezione da SARS-CoV-2, e, pertanto, può essere offerta indipendentemente da una pregressa infezione sintomatica o asintomatica da SARS-CoV-2. Ai fini della vaccinazione, non è indicato eseguire test diagnostici per accertare una pregressa infezione. È possibile considerare la somministrazione di un’unica dose di vaccino anti-COVID-19 nei soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dalla documentata infezione e, preferibilmente, entro i 6 mesi dalla stessa. Fanno eccezione i soggetti che presentino condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, i quali, pur con pregressa infezione da SARS-CoV-2, devono essere vaccinati quanto prima e con un ciclo vaccinale di due dosi”.

Quindi, quasi di passata, scivolando sul pericolo: (…) Sulla base di dati molto preliminari è ipotizzabile che la risposta immunitaria alla seconda dose nei soggetti con pregressa infezione possa essere irrilevante o persino controproducente. Sebbene questi dati si riferiscano ai vaccini a mRNA, è ragionevole assumere che non vi siano differenze per altre tipologie di vaccini “. persino controproducente? In quale senso? In che misura? Il rapporto non approfondisce.

E ancora: In merito al profilo di sicurezza dei vaccini anti-COVID-19, non sembrano esserci differenze significative tra i soggetti positivi per SARS-CoV-2 e quelli negativi. Questo è stato evidenziato negli studi registrativi dei tre vaccini COVID-19, anche se la numerosità dei soggetti con pregressa infezione era molto limitata (circa 2-2,5% dei partecipanti negli studi). Contrariamente a ciò, qualche recente segnalazione mostra una reattogenicità sistemica (reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, ecc.) più frequente nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi”.

Tutto qui; nessun accenno ai recenti casi di decessi sospetti, di trombosi, di coma irreversibile, di morte cerebrale, di reazioni a vario titolo avverse. Come non fossero mai accaduti. Il documento, va ribadito, è datato 13 marzo, pochi giorni prima del blocco del prodotto AstraZeneca con immediata riabilitazione dell’EMA con la seguente spiegazione ufficiale: non possiamo escludere contraccolpi anche micidiali, per questo abbiamo riscritto il bugiardino, però, anche se il vaccino potrebbe fare male, è sicuro che fa bene. E sarà anche così, ma l’orgia di studi iniziali, mancanza di certezze, necessità di approfondimenti, questioni lasciate aperte per diretta ammissione dell’ISS, suona quanto meno sconcertante.

Con una certezza di fondo, che poi è ancora una domanda: ma non dovevamo risolvere col vaccino, non dovevamo uscirne una volta per tutte? La risposta, amico mio, soffia nel vento, e il vento soffia nel lockdown perenne.

Max Del Papa, 23 marzo 2021

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