Soldi ai sindacati, 3 proposte per indagare

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Nove anni fa Giuliano Amato fu incaricato di fornire analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti, sul loro finanziamento e sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati. Glielo chiese il Governo presieduto da Mario Monti. Era il tempo della spending review. Almeno a parole. Un mese prima Enrico Giovannini aveva gettato la spugna, quando gli chiesero, come presidente dell’Istat, di produrre una relazione per confrontare ed equiparare le remunerazioni dei parlamentari italiani a quelle di altri Paesi occidentali. Non ci riuscì, se ci provò.

Amato fece più o meno lo stesso. Compiti impossibili? O semplicemente improponibili nel regime partitocratico – citiamo Marco Pannella – che governa il Paese? I partiti sono morti, ma la partitocrazia è viva e vegeta. E non riguarda solo le organizzazioni che hanno preso il posto dei partiti tradizionali, ma da sempre coinvolge le organizzazioni sindacali. Sul finanziamento ai partiti ci si è stracciati le vesti (non tutte) a volte lacerando qualche abito di qualità. Sul finanziamento dei sindacati il silenzio è tombale e chi pone il problema è un nemico del popolo.

Nessuna intenzione di fare intemerate, ma visto che si continua a parlare di concertazione e confronto sindacale – anche in questi giorni e anche se le tre principali confederazioni non sono concordi tra loro, come sull’idea del salario minimo per legge – sarebbe utile farsi qualche domanda sulle risorse, oltre che sulla rappresentatività. La società liquida e la tendenza alla disintermediazione sollecitata anche dalle nuove tecnologie non può riguardare solo i partiti. Se questi sono defunti sarebbe sbagliato non chiedersi se le altre strutture nate dalla fondazione della Repubblica (e che hanno goduto, forse giustamente, della cospicua eredità anche immobiliare dello Stato fascista) possano essere considerate allo stesso modo, nel tempo.

L’indagine di Giuliano Amato si arenò, di fatto, sui patronati e sui Caf. Gli intermediari istituzionali che facilitano il rapporto tra cittadini e Pubblica amministrazione non sono un’esclusiva delle organizzazioni sindacali. Ma Cgil, Cisl e Uil rappresentano la gran parte di questo bosco fitto di ossigeno e di insetti. Al netto delle possibili polemiche a proposito di Caf e patronati sarebbe forse il caso di fare un programma in tre punti:

1. promuovere una indagine vera sulle risorse di cui dispongono gli intermediari e i loro controllori (i sindacati);

2. verificare non solo il grado di soddisfazione dei cittadini, ma i risparmi generati dalla Pa dal loro ruolo (non deve sfuggire che il patronato è sia partner della Pa, sia promotore di contenzioso contro la Pa);

3. affidare una seria ispezione sulle attività non tanto agli ispettori del Ministero del Lavoro, quanto a forme ispettive delle Amministrazioni intermediate da patronati e Caf.

Sul primo punto le poche cose certe riguardano i trasferimenti pubblici: 700-800 milioni l’anno. Questa è la somma che lo Stato riconosce agli intermediari autorizzati. In questa somma non sono comprese le quote che individualmente i cittadini versano agli istituti di patronato e Caf per iscriversi e per avere seguita la propria pratica.

Chi è iscritto al sindacato non paga nulla? Allora si potrebbe riproporre il tema dimenticato delle quote sindacali e sulla consapevolezza della detrazione in busta paga o dal cedolino della pensione (ormai gli iscritti al sindacato sono in maggioranza lavoratori in pensione). Da presidente dell’Inps ebbi l’avventura di predisporre un’indagine sulla delega sindacale. Così come feci un esposto alla Procura su diversi casi di dichiarazioni patronali false (fatte per conto di persone defunte o ripetute per persone in vita). Nell’un caso e nell’altro non ho potuto registrare effetti e conseguenze, se non la fine della mia presidenza.

Sulle ispezioni mi limito a ricordare le parole dell’ex ministra Catalfo (M5s, lo scorso anno): “Il notevole ritardo con cui gli ispettori (ministeriali, ndr) hanno trasmesso gli esiti degli accertamenti ispettivi”, “le numerose discrasie tra le risultanze degli accertamenti”. La relazione presentata nel 2020 riguardava l’attività patronale del 2018. Ma l’ex ministra dovette ammettere che i dati delle ispezioni (per comprovare l’attività effettivamente svolta dai patronati) era ferma al 2013.

In buona sostanza lo Stato eroga contributi miliardari a fronte di auto-dichiarazioni. In queste condizioni potrebbe sembrare lunare l’idea di un punteggio sulla qualità (e sulla soddisfazione) del servizio erogato.

Antonio Mastrapasqua, 27 settembre 2021

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