Torniamo a lavorare! Stavolta Sala uno di noi

8k 20
generica_porro_1200_3

Questa volta, e lo diciamo convintamente e senza alcun ritegno, Beppe Sala uno di noi. Che qui non si sia dei cantori della parabola di un solido manager, coinvolto nell’amministrazione della cosa pubblica dal centrodestra e poi issato a Palazzo Marino dalla gauche milanese (la più ostentatamente radical senza essere nemmeno più chic, per cui di gran lunga la più inquietante) è noto.

Ma questa volta non possiamo che applaudire, sottoscrivere e glossare, e lo facciamo volentieri. Perché nel suo odierno video social (che i sinistri duri e puri stanno già massacrando al grido di “bocconiano affamatore del popolo!”) è andato, con grande senso pratico e meneghino, dritto al punto che conta, l’unico, nei giorni delle passerelle in villa a Roma e relative lenzuolate celebrative sui giornali. Scovando l’unica parola d’ordine degna di essere ascoltata, oggi e sempre: “È il momento di tornare a lavorare!”. O a lavurà, se ci piace differenziarlo anche foneticamente dai gran balli del rito romano attorno al fantomatico piano per la fantomatica ripartenza a settembre. Un controsenso, come sa qualsiasi artigiano nella sua bottega. La ripartenza è adesso, o rischia di non essere mai più.

È ora di uscire dall’incantesimo straniante confezionato da Giuseppi e dal fido Casalino (o è Casalino e il fido Giuseppi?), i fondi perduti che non arrivano, la cassa integrazione che non c’è, i navigator che invece ci sono e i percettori di reddito di cittadinanza che incassano. E di farsi la domanda secca che scandisce il sindaco in ouverture: “È ancora la nostra una Repubblica fondata sul lavoro?”. È ancora vigente, nella vita fattuale del Paese, l’articolo 1 della Costituzione (pensate, qualcosa che sta persino sopra i dpcm di Conte, o come diavolo si chiamano)? Sala mostra scetticismo, e noi (come chiunque dimori nella realtà, e non a Villa Pamphili) con lui: “È il caso di guardare in faccia la realtà e per le parti più deboli dal punto di vista del lavoro, i giovani e le donne, c’è una seria ipoteca per il futuro, dobbiamo occuparcene”. Subito, non a settembre.

E non si può che cominciare sconfessando certi dogmi beoti del pandemicamente corretto: “Un consiglio mi sento di darlo, io sono molto contento del fatto che il lockdown ci abbia insegnato lo smart working, e ne ho fatto ampio uso in Comune. Ma ora è il momento di tornare a lavorare perché l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli”. Parole liberatorie, forse fin liberiste, senza dubbio non intinte nel cretinismo liberal: è ora di farla finita con l’ideologia fighetta dello smart working, che ovviamente può andare benissimo per certe aziende di servizi o del terziario (oltre che per una buona quota degli statali, certo, ma solo chi è disonesto intellettualmente può non vedere il rischio che lo smart prevalga fin troppo sul working).

Ma insomma signori, qui devono ripartire le grandi filiere industriali, i gangli produttivi d’eccellenza del Paese, la micro-impresa diffusa e salvifica… Qui bisogna tornare a mettere testa, cuore, ma soprattutto piedi, in azienda.

L’alternativa l’ha indicata proprio oggi l’Istat, sfornando i dati del primo trimestre 2020: Pil -5,3%, occupazione -6,9%. In un Paese già inchiodato alla crescita zero figlia del tassa&spendi trasversalmente praticato negli ultimi anni (o decenni?) da lorsignori, si fa presto a passare dalla crisi all’ecatombe. #Torniamoalavorare, prima che sia troppo tardi, forza Beppe, è l’hashtag giusto.

Giovanni Sallusti, 19 giugno 2020

Ti è piaciuto questo articolo? Leggi anche

Seguici sui nostri canali
Exit mobile version