Trump, il (non) Nobel per la pace meritato

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Tenete sempre presente questo: il Nobel per la Pace non fu assegnato a Ronald Reagan. Il presidente che ha sconfitto il totalitarismo comunista senza sparare un colpo, liberato mezza Europa, riscattato il futuro di un numero incalcolabile di generazioni. Il quale però aveva un unico, inscusabile, macroscopico difetto: era repubblicano.

Figuratevi se i soloni scandinavi valutano l’ipotesi di consegnare il riconoscimento a Donald Trump. Che, usando esclusivamente la ragione, se lo meriterebbe tutto. L’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, perseguito e benedetto dall’amministrazione americana, è infatti talmente “storico” che persino i giornaloni sono stati costretti a spendere l’aggettivo, per quanto di malavoglia e con mille postille. Ma la sostanza è: per la prima volta una monarchia sunnita del Golfo persico riconosce ufficialmente lo Stato d’Israele. Non solo nel suo diritto diplomatico ad esistere, ma nella sua realtà industriale, tecnologica, d’intelligence. Tutti settori in cui lo Stato ebraico e il Paese per molti versi all’avanguardia del mondo arabo implementeranno una collaborazione che cambia gli scenari in Medio Oriente, quindi sempre e giocoforza anche nel mondo.

L’intesa tra Gerusalemme e Dubai è la definitiva certificazione di una tendenza coerentemente perseguita dalla politica estera di Trump fin dal primo giorno: il consolidamento di un blocco che unisse le petromonarchie arabe e Israele (esteso in seconda battuta anche all’Egitto). Il passo sarebbe stato infatti impossibile senza il lasciapassare e probabilmente la partecipazione attiva dell’Arabia Saudita, la vera potenza del Golfo, che anzi secondo alcune ricostruzioni sarebbe pronta a compiere un passo analogo verso Israele, con cui peraltro da tempo ha imbastito uno scambio ufficioso d’informazioni. Anzitutto in chiave anti-iraniana, e qui sta il sugo geopolitico della storia.

Con l’accordo che su Twitter ha definito “enorme”, Trump in un colpo solo rompe ufficialmente l’isolamento in Medio Oriente di Israele (ovvero dell’unica democrazia liberale dell’area, sotto le cui mura “si difende la libertà dell’Occidente”, sosteneva Ugo La Malfa) e assesta un duro colpo al regime nazi-islamico di Teheran, la principale minaccia alla pace, lo Stato-canaglia che vorrebbe cancellare la nazione degli ebrei dal mappamondo, che sponsorizza ed esporta terrorismo (tra gli altri, i gentiluomini di Hezbollah e di Hamas), che coltiva un progetto imperiale di egemonia regionale. Non a caso il presidente Rohani (un “moderato”, secondo il mainstream nostrano che fa le fusa agli ayatollah) è passato subito alle minacce verso gli Emirati: “Non è nell’interesse dei loro governanti né della loro sicurezza”.

In realtà, l’unica sicurezza che viene (ulteriormente) minata è quella degli ayatollah medesimi, abituati a spadroneggiare e ad essere riveriti nell’era Obama (un caso opposto di Nobel preventivo, sulla fiducia tradita, ma d’altronde era democratico), e che ora invece vedono materializzarsi l’incubo supremo, l’alleanza tra i loro due grandi nemici, che certamente stabilizza il Medio Oriente e ricaccia indietro le loro velleità espansioniste.

Il secondo grande scontento è un altro macellaio (quindi un’altra prova a favore dell’operazione Trump): Recep Erdogan, che accusa esplicitamente gli Emirati di “tradimento”. È il terzo fronte, quello neottomano e sunnita intransigente, che ha l’epicentro a Istanbul e passa per il Qatar e la Fratellanza Musulmana, e ha in comune col totalitarismo sciita iraniano il millenarismo islamico e l’individuazione dei nemici: Israele e l’Occidente.

Il patto storico ottenuto dal puzzone, dall’inadeguato, dal presidente abusivo in svantaggio in tutti i sondaggi contro Biden (vince Hillary, do you remember?), frappone tra Turchia e Iran un fronte Egitto-Israele-Emirati-Sauditi che economicamente, tecnologicamente, militarmente può dare le carte in Medio Oriente. Frenando istinti bellicosi, puntellando l’anomalia democratica israeliana, marginalizzando Russia e Cina. Chissenefrega del Nobel.

Giovanni Sallusti, 17 agosto 2020

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