Trump vs Biden: la vita dei neri conta solo sotto elezioni?

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Città a soqquadro, saccheggi nei negozi (persino in una boutique di Louis Vuitton, chissà che c’entra col razzismo), hashtag virali, profili Instagram listati a lutto. Gli Stati Uniti sono a ferro e fuoco e Black lives matter rivendica: le vite dei neri contano. Giusto. Ma mica solo sotto elezioni. Sommosse come quelle scoppiate dopo la morte del povero George Floyd, negli Usa, non si vedevano dalla campagna elettorale del 2016 e dalla prima fase della presidenza di Donald Trump – allorché, superato lo choc iniziale, l’opposizione provò a riorganizzarsi. E lo fece riprendendosi le piazze.

I neri hanno continuato a subire violenze: come ricorda Daniele Dell’Orco di Nazione Futura, sono il 26% dei sospetti uccisi dalla polizia, il 37% degli uccisi disarmati – ma anche il 43% degli assassini di agenti e il 12% dei poliziotti, una proporzione che rispecchia quella della popolazione afroamericana. Eppure, le rivolte sono esplose solamente a ridosso delle presidenziali, in un momento in cui la pandemia e la crisi economica hanno forse reso di nuovo possibile quello che, fino a gennaio, pareva impossibile: mandare a casa Trump. A pensar male si fa peccato, ma questi di Black lives matter sembrano le sardine americane. Funzionali alla sinistra come Mattia Santori e compagni, solo che, a differenza dei pacifici pescetti emiliani, hanno le spranghe in mano. Curiosamente, nessuno dei sedicenti antirazzisti ha pianto l’assassinio di David Dorn, ex poliziotto di colore ucciso a St. Louis durante un saccheggio. Se il nero è dalla parte dell’ordine, non interessa a nessuno?

Certo, bisogna ancora capire se questa rivoluzione più o meno spintanea migliorerà davvero la vita ai neri. Persino il candidato democratico, Joe Biden, è stato costretto a dissociarsi dalle frange violente del movimento. Il governatore del Minnesota è affiliato al suo partito e l’insurrezione per lui è una bella gatta da pelare: sarebbe comunque pericoloso scaricargliela sul groppone per usarla contro The Donald. I dem, non a caso, cominciano a battibeccare tra loro: il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha accusato il sindaco Bill de Blasio di non aver fatto abbastanza per proteggere la popolazione.

Come la prenderà l’elettorato? La sollevazione indignerà la “maggioranza silenziosa” evocata dall’inquilino della Casa Bianca? Secondo Federico Rampini, ad esempio, Trump ha capito che le scene dei disordini lo aiutano. E in fondo, durante il mandato di The Donald, la popolazione di colore aveva toccato il livello record di occupazione: forse è quello il modo migliore per strappare i neri al crimine.

Una riflessione più generale, tuttavia, bisogna farla. Con il razzismo non c’entra niente, ma con il pessimismo sì. La tesi è questa: le tensioni negli Usa aumenteranno drammaticamente, Trump o non Trump. La demografia parla chiaro. Entro il 2042, i bianchi non ispanici, negli Stati Uniti, non saranno più la maggioranza della popolazione. Entro gli anni Sessanta di questo secolo, l’incremento demografico sarà dovuto quasi esclusivamente all’apporto degli immigrati. Il mosaico del melting pot americano continuerà a diversificarsi: così, da un lato, i Wasp reagiranno in maniera sempre più piccata al percepito accerchiamento; dall’altro, le minoranze etniche – via via meno minoritarie – lasceranno per strada la solidarietà “di classe” e inizieranno a scontrarsi tra loro. È un dato di fatto: neri, asiatici e ispanici, in America, non convivono nella concordia.

Ripetiamo: questa non è una teoria razzista. È una descrizione della realtà, un’ipotesi su quel che potrebbe avvenire, alla luce delle tendenze demografiche e delle attuali linee di frattura tra gruppi etnici. Tutto lascia supporre che ci si avvi verso la balcanizzazione. Il melting pot doveva essere un sogno di coesistenza armoniosa, però la realtà ci parla di angherie, conflitti, ghettizzazione e inimicizie.

L’altro elemento che aumenta la temperatura nella già composita società americana è l’opa, lanciata sulla sinistra, da parte della cosiddetta identity politics. Ovvero, quell’ideologia secondo cui le minoranze (di tutti i tipi), avendo subito delle ingiustizie, ora debbono vendicarle. Per intenderci: è a quella fonte che attingono i demolitori di statue di Cristoforo Colombo, che denunciano lo sterminio dei nativi da parte degli europei, o i fanatici che si danno alla guerriglia nei campus universitari, pur di togliere la parola a relatori di cui non condividono le idee. È un fenomeno preoccupante, perché l’identity politics ha ipotecato tanto la sinistra radicale, quanto quella moderata. È per questo che Biden s’è sentito in dovere di dire che i “veri” neri non possono che votare per lui, o di sostenere che il Paese è affetto da “razzismo sistemico”. Il Partito democratico crede che, visto il crescente peso demografico delle minoranze etniche, soffiare sul fuoco significhi fidelizzare uno sterminato bacino elettorale – a patto che si riesca a portare alle urne gli “oppressi”, tra i quali trionfa l’astensionismo. Ma un tornaconto sul breve termine può essere un gigantesco svantaggio strategico in prospettiva.

Se una nazione come gli Stati Uniti sprofondasse in una spirale di vendette politiche delle minoranze su quelli che considera i propri aguzzini; o se, peggio, precipitasse in una guerra civile, come si presenterebbe alla prova della guerra fredda con la Cina? Quello scenario che, volenti o nolenti, caratterizzerà il futuro prossimo? Il Dragone arriva alla sfida (nonostante la pandemia, per quel che ne sappiamo ora) in gran forma. Gli Usa la reggerebbero, senza una società coesa? Può un battito d’ali di pipistrello a Wuhan far crollare una presidenza a Washington? Può una razzia in un negozio di New York cambiare per sempre l’ordine mondiale?

Alessandro Rico, 3 giugno 2020

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