11 settembre, i miti infranti della generazione 40

6.7k 3
11 settembre persone

Quel giorno cadde anche il cielo, tirato già dalle Torri Gemelle. Il cielo delle certezze, e della placida e morbida illusione di essere immuni dalla necessità di scegliere. Con l’atto di guerra islamica di New York, quell’11 settembre di vent’anni fa, si svoltò l’anima per la generazione dei 35-40enni di oggi. Cresciuti nel solco del non-impegno, nel walalla beato di quel che venne dopo la caduta del Muro di Berlino. Erano crollate le ideologie, si diceva. Era finita la storia, scrisse Francis Fukuyama in un citatissimo saggio. Erano state demolite (in Italia) le culture politiche che nel ‘900 avevano segnato l’affondo nel Belpaese dei due blocchi. Non c’era più bisogno di credere in qualcosa, e dunque per chi annaffiava la propria giovane coscienza negli anni ’90 c’erano altri collanti, al posto della politica, che cementavano l’appartenenza, e tutti erano rivoli del grande mito della globalizzazione.

Dunque non ci si distingueva più per il giornale d’area sotto al braccio, prima di andare a scuola o all’università, che segnava il primo affaccio al mondo delle idee, ma per la marca delle sneakers. I grandi brand affratellavano come due joystick dei videogiochi. E il senso pieno dell’apoteosi di quello spirito la sintetizza, anni dopo, Michael Keaton dando volto a Ray Kroc nel film The Founder. Kroc era l’ imprenditore sempre sul ciglio del burrone, che ebbe l’intuizione di trasformare il fast food dei fratelli McDonald, diffidenti e onesti ristoratori dell’America profonda, nell’astronave globale che ben conosciamo. Illustrando il progetto architettonico dei rinnovati ristoranti, segnati dalla “M” gialla esterna, Keaton-Kroc predicava: “Si potrebbe dire che quel bellissimo edificio ornato da quegli archi (…) rappresenta la famiglia, rappresenta la comunità, è un posto dove gli americani si riuniscono per spezzare il pane”.

È esattamente il solco che segnava il cammino di vita della nuova generazione ante 2001, quel cammino che non conosceva ostacoli o muri di sorta. C’era lo slancio verso il mondo, catapultati altrove dalle vacanze studio, attratti dalla calamita terribilmente pop che spingeva a scoprire il pianeta da cui provenivano i cantanti, gli attori, i campioni sportivi preferiti (quasi sempre anglosassoni). Dove non si arrivava con l’aereo, però, si planava con le prime versioni di internet, porta d’accesso all’intero globo attraverso certe gracchianti scatolette dei sogni, quei modem che davano nuova linfa di vita alla linea telefonica fissa di casa, altrimenti mezza pensionata dai telefoni cellulari che andavano disegnando nuovi codici d’amore e d’amicizia.

Chi poteva aver bisogno d’una Patria, a quel tempo, quando essa era ovunque nel lato occidentale del Pianeta? Chi poteva pensare che potesse ridefinirsi un “noi e un loro” quando l’altro appariva così vicino, raggiungibile, e soprattutto pacifico? Era il sogno di una generazione nata per essere senza guerra. Il giorno che il cielo cadde, ad essere il fumo grigio non avvolse soltanto New York, ma anche il Paradiso delle convinzioni. Venivano giù i simboli del tutto possibile. La libertà si mostrava nuda e tremante innanzi ai suoi figli. Che si riscoprirono indifesi. Un “noi” e un “loro” c’era eccome. E di lì a qualche anno, specie con gli attentati che colpirono l’Europa, avremmo scoperto che “loro” erano persino coetanei, cresciuti nel ventre nelle miraggio dell’odio, della guerra, della morte per se stessi quanto noi in quello della vita, dell’amore, del denaro e della pace. Era arrivato il momento di capire e, ancor peggio, di scegliere. Il cielo ci cadde addosso vent’anni fa, sì. E non avevamo il libretto di istruzioni.

Pietro De Leo, 11 settembre 2021

Ti è piaciuto questo articolo? Leggi anche

Seguici sui nostri canali
Exit mobile version